Al centro della scena, un bar di San Sostene, sede operativa dell’organizzazione criminale, dove gli imputati avrebbero lasciato, conservato, custodito la droga per poi rivenderla nel soveratese, da Davoli a Gasperina, da Montepaone a San Sostene.
Un collegamento che portava a San Luca, storico capoluogo della ‘ndrangheta e roccaforte dei Nirta-Strangio, e a Guardavalle, casa della famiglia Gallace.
Su tutti, Domenico Procopio, in qualità di reggente della cosca Procopio-Mongiardo. E senza transigere sui conti da saldare.
Pur di far quadrare il cerchio del bilancio interno, infatti, sarebbero stati disposti a qualsiasi cosa, anche a minacciare i genitori degli assuntori, con frasi tipo: “Ti buttiamo giù la casa con una pala” o “Vi buco gli occhi, voi volete pestata la testa ed io ve la pesto”.
Toccherà alla Corte d’appello di Catanzaro, adesso, fissare il nuovo processo, nel quale si tornerà a parlare di quel presunto vorticoso giro di droga scoperto nel Soveratese. Oltre cento episodi di spaccio. Ma anche decine di estorsioni.
Un teatro di criminalità crescente e pervasivo, invadente, soffocante. Di questo si parla nelle carte della pubblica accusa, di un’organizzazione strutturata, articolata, gestita in modo scientifico con il pensiero sempre fisso in testa: raccogliere denaro per mantenere amici e parenti detenuti in tutta Italia. Con un filo diretto a San Luca e che finisce ad Avellino.