Caro Tito, con la precedente lettera n. 234 abbiano riflettuto con angoscia sulla Shoah ebraica, ma anche sulle Shoah passate e presenti degli altri popoli e del mondo intero, pregando e fremendo per un futuro prossimo o remoto di non-violenza (quale purtroppo ancora non s’intravede, anzi!).
CAMPI DI STERMINIO E DI PRIGIONIA
Inoltre, attraverso il libro dell’allora adolescente Alberto Forte “Lo sterminio visto da un giovane” (scritto nel 1995 e pubblicato nel 2017), abbiamo dato il nostro più fraterno ricordo ed il nostro più tenero affetto a milioni e milioni di persone che in tutti i campi di sterminio, concentramento o di semplice internamento, in ogni parte del mondo hanno sofferto (specialmente dal 1938 al 1945) inenarrabili e disumani stenti, persino la più atroce morte collettiva e, comunque, nel migliore dei casi, una restrizione militarizzata della libertà per troppi anni come nel campo di concentramento (per quanto “umanizzato” secondo l’etica italica) di Ferramonti di Tarsia, in Calabria.
E per troppi anni (dal 1940 al 1947 e oltre, a volte) la migliore gioventù del mondo (che nei suoi splendidi 20 anni avrebbe dovuto pensare soltanto all’amore, a farsi una famiglia e al futuro dei figli) è stata costretta, pur innocente, ad abbrutirsi e ad uccidersi a vicenda nei terrificanti campi di battaglia oppure a stare rinchiusa in appositi campi di internamento per prigionieri di guerra (spesso lontani dalla patria e dalla propria casa migliaia e migliaia di chilometri)! Una gioventù “bruciata” dalle armi e dalla più estrema cattiveria umana!
LA RICOSTRUZIONE E LA LUNGA PACE
Eppure, dopo aver subìto tante atrocità e vicissitudini, questa stessa gioventù ferita e forgiata dalla guerra (cui in vario modo è sopravvissuta) è stata capace di ricostruire i propri Paesi. Non solo, ma alla luce della tremenda esperienza, ha saputo donare ai propri figli e nipoti (almeno in Europa) uno dei più lunghi periodi di pace e di benessere che la Storia ricordi. Un patrimonio, questo, d’inestimabile valore e di esaltante significato umano, sociale ed universale che, attenzione!, qualcuno sta cercando di sciupare sciaguratamente e mettere in pericolo con nuove e più nefaste tragedie quali si profilano all’orizzonte!
GENITORI-MAESTRI DI RICOSTRUZIONE E DI PACE
Chi, come me, ha avuto la fortuna di avere Genitori (nati nei primi anni del Novecento, oppure tra le due guerre mondiali) può ancora gioire non soltanto perché sono sopravvissuti alle ripetute ondate belliche (mondiali e coloniali), ma soprattutto perché hanno partecipato con entusiasmo e con tutte le loro forze alla ricostruzione del nostro Paese dalle macerie fisiche e morali, garantendo a noi figli (nipoti e pronipoti) pace e benessere per così lungo tempo, dal 1945 in poi (nonostante immani sacrifici e difficoltà di ogni genere, specie nel nostro Sud Italia).
LA GENERAZIONE EPICA POST-BELLICA
Non ho mancato occasione pubblica o privata per decantare come “epica” questa “Generazione della Ricostruzione”! L’ho fatto in modo riconoscente e grato, anche in forma solenne e storico-sociologica nella mia tesi di laurea su Badolato (1977) così come l’ho fatto in forma paradigmatica, familiare e comunitaria-universalistica con i sette volumi del “Libro-Monumento per i miei Genitori” (2005-2007) …
La “Generazione della Ricostruzione” nazionale ed europea, continentale e mondiale è stata davvero epica negli ideali e nei fatti soprattutto perché ci ha travasato la sua esperienza, i suoi moniti e, in particolare, l’irrinunciabile e attraente bellezza della libertà, della pace, del benessere, dell’impegno tenace e della speranza di un mondo migliore! Un mondo migliore che adesso tocca a noi tutti, grandi e piccoli (figli, nipoti e pronipoti), mantenere e ancor di più sapere guadagnare, facendo sì che le guerre possano essere soltanto un ricordo lontanissimo e, addirittura, “archeologico”!
RICORDARE E STUDIARE PER NON REPLICARE ERRORI ED ORRORI
L’esercizio o (come esortano alcuni) il vizio, il culto e, addirittura, l’ossessione della “memoria” ci sono utili per non ripetere errori ed orrori. Ma non basta ricordare, è necessario studiare, studiare, studiare!… E, nel modo più assoluto, è indispensabile “volersi bene”. Volersi bene con soltanto tra popoli e persone, ma anche individualmente … volere bene a sé stessi, quasi essere “egoisti” e gelosi della propria libertà, del proprio presente e futuro!
Caro Tito, ho sempre detto e scritto che l’Amore e l’Egoismo (buono, opportunista) possono coincidere ed ottenere il medesimo risultato (sebbene con diverso sapore e gusto). La pace ed il benessere si possono raggiungere con l’Amore (cioè con i valori più esaltanti che gli esseri umani riescono ad esprimere) oppure con l’Egoismo (cioè con i valori tipici della “paura” e con quelle tendenze alle ricchezze solide, superflue o durature che si possono ottenere unicamente in un mondo di pace e di stabilità non certo in un mondo incerto e insicuro fatto di guerre o di varie tensioni sociali).
RICORDO ED AFFETTO PER LA GENERAZIONE EPICA
Caro Tito, con questa “Lettera n. 235”, voglio rendere memoria ed affetto alla “Generazione epica” post-bellica che, con impegno e passione, è riuscita a riportare l’Italia su posizioni assai significative in campo internazionale, pure nello sport olimpico, come testimonia lo spazio dedicato (verso la fine del testo, nelle “Letture Parallele”) ad esempio al “siciliano-sudafricano” Marcello Fiasconaro (primatista italiano di atletica leggera) e al “marchigiano” Ezio Triccoli, maestro di scherma che ha allenato grandi campioni olimpici e mondiali come la recentissima pluripremiata Valentina Vezzali. Ezio Triccoli e il padre di Marcello Fiasconaro sono stati internati in uno dei campi di prigionia inglese del Sud Africa, durante la seconda guerra mondiale.
ELEZIONI 26 MAGGIO 2019 FAR VINCERE L’EUROPA
Caro Tito, ho presentato la precedente “Lettera n. 234” e cerco di evidenziare questa 235 anche in previsione delle Elezioni Europee di domenica 26 maggio 2019, per esortare tutti coloro che ci leggono a recarsi alle urne tutti, in massa, per contribuire a far vincere l’Europa tutta intera, molto responsabilmente e pienamente consci di tutte le generazioni che ci hanno preceduti e che hanno sofferto e lavorato alacremente per garantirci pace, libertà e benessere!
Coloro che si asterranno dalle urne e coloro che sosterranno idee e candidati contrari al futuro, al perfezionamento e al rafforzamento dell’Unità Europea non soltanto si prenderanno la gravissima responsabilità di tradire la “generazione epica” (cioè i loro padri e nonni, mamme e nonne) ma rischieranno di riportare il Vecchio Continente nelle condizioni di caos e di incertezze tali da costringerci a perdere i valori preziosissimi e i beni sociali che ci hanno permesso di vivere finora nella stabilità di crescita serena e lungimirante pur tra tante problematiche da risolvere tutti insieme e non da acuire irreversibilmente.
SMENTIRE IL PROVERBIO
Dalle nostre parti si è soliti citare un antico proverbio che recita: “La roba (cioè, la ricchezza) c’è chi la fa, chi la mantiene e chi la spreca”. In pratica, la “generazione epica” ha guadagnato la ricchezza sociale della pace, del benessere, della democrazia; c’è poi la nostra generazione post-bellica che, bene o male, è riuscita finora a mantenere tale mirabile patrimonio; ma, purtroppo, sta avanzando chi cerca di sprecare o addirittura mandare in rovina quel “perfettibile progresso” e quei preziosissimi valori civili e democratici che ancora ci fanno reggere sulla via di un mondo migliore!
L’OBBLIGO DI ONORARE E DIFENDERE LE GENERAZIONI
Caro Tito, io e te facciamo parte di quella “Generazione intermedia” tra la “Generazione epica” dei nostri padri e nonni e la “Generazione futuribile” costituita dai nostri figli, nipoti e pronipoti. Nella staffetta o catena intergenerazionale, adesso tocca a noi esortare le nuove generazioni a non dissipare o addirittura distruggere preziose posizioni e irrinunciabili valori di civiltà e di lungimiranza.
Adesso, tocca a noi con tutte le forze difendere le nuove generazioni dalle tremende insidie della globalizzazione (che pure ha moltissimi aspetti positivi) ed onorare, così, i sacrifici delle generazioni che ci hanno preceduti.
DIFENDERE E RAFFORZARE L’EUROPA UNITA
Caro Tito, io e te, tutte le generazioni post-belliche abbiamo un obbligo in più per difendere l’unità dell’Europa, non tanto per noi stessi (che, bene o male, siamo giunti ad una certa età, essendo nati e vissuti in piena pace e in soddisfacente benessere)… quanto per i nostri figli e nipoti e pronipoti, ai quali dobbiamo ancora e sempre futuro e lungimiranza, nelle migliori condizioni possibili! Inoltre, sarebbe un vero e devastante crimine indebolire l’Europa proprio adesso che abbiamo a che fare con i giganti della globalizzazione (USA – Russia – Cina – India – Giappone – Brasile, ecc.) i quali (persino alleati o semplici amici) ci possono stritolare, pure perché sembrano non avere nemmeno la minima pietà proprio per nessuno!
Perciò, per me, ricordare i nefasti tempi bellici del secolo scorso, rappresenta un obbligo ed motivo in più per ribadire come e quanto sia necessario ed urgente avere e mantenere il massimo coraggio nel continuare a costruire un’Europa ed un mondo più uniti e pacifici, più umani e solidali, più equilibrati e lungimiranti per il bene delle presenti e delle future nostre amate generazioni!
RICORDIAMOCENE DOMENICA 26 MAGGIO 2019
Ai semplici cittadini come noi restano, purtroppo, poche pacifiche “armi” di difesa e pochi strumenti di valorizzazione di valori che ci hanno fatto crescere nella pace e nel pur relativo benessere. Per quanto pochi è necessario utilizzarli tutti, insistendo soprattutto sugli atteggiamenti e sui comportamenti socio-culturali e negli importantissimi appuntamenti elettorali da disertare mai mai mai!
Quindi, domenica 26 maggio 2019 (giusto fra 4 mesi) ricordiamocene nelle urne, da raggiungere tutti, in massa e con entusiasmo, senza perdere tale preziosa opportunità di dire la nostra. Altrimenti lasciamo decidere gli altri sul nostro destino e … sarebbe proprio da fessi, non ti pare?!…
EUROPEISTA ED UNIVERSALISTA CONVINTO
Caro Tito, sai bene che ho sempre ho coltivato al massimo i valori europeistici ed universalistici, con tenacia ed entusiasmo, senza mai esitare o dubitare, fin dalla prima adolescenza (dai miei undici anni, dalla prima media). E, anzi, ho cercato (nel mio piccolo e per quanto possibile) di farmi promotore di iniziative varie e disinteressate per diffondere e migliorare tali valori.
E oggi, più che mai, sento il dovere umano, civico e da sincero ed affettuoso cittadino del mondo, di sostenere “ad libitum” (ad oltranza) questi valori messi in pericolo da numerose minacce. La presente “Lettera n. 235” ne intende essere esortazione e testimonianza!
Perciò, comincio con un racconto emblematico sui prigionieri di guerra italiani (1940-47) prendendo spunto da alcuni documenti fornitimi recentemente dall’amico neo-badolatese Franco Muià sul padre Angelo e su altri internati nei campi inglesi del Sud-Africa … ricordando, ovviamente, tutti gli altri militari prigionieri che, di ogni nazionalità, hanno sofferto anni e anni di tristissima detenzione nei campi situati in ogni parte del mondo.
Ai morti e ai prigionieri della seconda guerra mondiale e di tutte le guerre passate e presenti va il nostro più affettuoso e devoto pensiero, ma anche l’impegno affinché l’Umanità tutta non abbia più a patire mai più, mai più queste inutili tragedie, ma possa costruire insieme un mondo davvero migliore!
LA LUNGA STRADA DEL RITORNO
Uno dei più importanti autori e registi cinematografici italiani, Alessandro Blasetti (Roma 1900-1987), nel 1962 ha realizzato (con l’aiuto di altri grandi nomi della Cultura nazionale) “La lunga strada del ritorno” un assai toccante film-documentario sul rientro in Patria di centinaia di migliaia di prigionieri italiani detenuti in vari campi delle Forze Alleate vincitrici della seconda guerra mondiale (1940-45). Tale importante documento di interviste di molti reduci e di immagini autentiche di repertorio è uno dei primi casi, almeno in Italia, di ricostruzione storica audiovisiva finalizzata alla più puntuale memoria storica, di cui è bene si avvalgano specialmente le nuove generazioni.
Rai Storia (canale televisivo tematico) lo ha trasmesso domenica 07 ottobre 2018 nel primo pomeriggio in collaborazione con le “Teche Rai”, però è possibile seguirlo al seguente indirizzo web di Rai Play: https://www.raiplay.it/video/2017/09/La-lunga-strada-del-ritorno-1a769433-0d24-4c38-8e4d-dd478848cac5.html. Ti assicuro, caro Tito, che non c’è scena, non c’è intervista o racconto autobiografico dei reduci che non tocchi l’animo fin nel profondo. In particolare, due episodi mi hanno commosso più di tutti.
1 – CI HANNO RUBATO LA GIOVINEZZA
Nel film-documentario di Alessandro Blasetti, un soldato racconta di aver fatto ben dieci anni tra guerra nelle Colonie italiane in Africa, Seconda guerra mondiale e Prigionia. Insomma, aveva lasciato casa nel 1937 e adesso ci ritorna nel 1947. Ha fatto soltanto un commento, tanto drammatico quanto ancora attuale: “Ci hanno rubato la giovinezza!”. Infatti, come non pensare ai tanti giovani di oggi, specialmente del Sud, ai quali è stata rubata la giovinezza (senza lavoro e senza alcuna prospettiva)! Ma è andata molto peggio a tutti quei giovani che in guerra hanno perso la vita! Mai più guerre, mai più guerre! Se c’è un Dio, ebbene, ci ascolti!
2 – ‘O SOLE MIO
Un altro soldato, chiaramente napoletano dalla chiara inflessione dialettale, si dice felicissimo di essere tornato finalmente a vedere “’O sole mio” … ovvero la sintesi più luminosa di tutta la sua vita e la voglia di ricominciare. Infatti, il sorriso aperto e fiducioso lascia intendere che è pronto fin da sùbito a darsi da fare per poter partecipare alla ricostruzione del proprio Paese e vivere nel migliore dei modi, dopo le angosce della guerra e la tremenda lontananza da casa e dalla sua splendida città per così tanti anni. Ah, il sempre presente “ottimismo napoletano”!…
FRANCO MUIA’
Franco Muià è nato a Siderno (RC) il 17 gennaio 1951. Ha vissuto molti anni a Genova dove, tra l’altro, è stato “Service Delivery Manager” (Capo Scalo) della British Airways, la compagnia aerea inglese di bandiera. Dopo lo sbarco delle parecchie centinaia di profughi curdi, ospitati a Badolato (CZ) dal 27 dicembre 1997, ha deciso di trasferirsi definitivamente in questo amenissimo borgo antico. Ha una sola sorella, Mirella, la quale dal 2002 è monaca eremita ed iconografa nell’Eremo dell’Unità di Gerace, nella Locride (https://www.youtube.com/watch?v=aMnivn2Q5b4). Anche lei, dopo una interessante esperienza socio-culturale vissuta per più di 20 anni a Parigi (pure all’Università della Sorbona), ha deciso di ritirarsi nella propria terra, abbracciando la fede nello stile di vita dei monaci italo-greci di Calabria.
“IN ATTESA” – IL GIORNALE DEI PRIGIONIERI DI GUERRA
Sapendo dei miei interessi storici ed intergenerazionali, Franco (divenuto amico mio e collaboratore culturale ormai da almeno 15 anni) mi ha mandato (via mail) il “file” del giornale “IN ATTESA” di 44 pagine pubblicato come “Numero unico” nel 1944 dai militari italiani segregati nel campo di prigionia inglese di Pietermaritzburg (a poca distanza dalla città di Durban, costa sull’Oceano Indiano) in Sud Africa, vicino al campo principale e più conosciuto di Zonderwater (dove sono transitati ben 94mila prigionieri italiani). Ovviamente, il titolo del giornale evidenziava “l’attesa” del tanto bramato ritorno in patria di quei prigionieri italiani, tra i quali c’era papà Angelo Muià (Siderno 1913 – 2003). Tale giornale era stato realizzato in occasione della inaugurazione della chiesetta del campo e contiene storie e principalmente i nomi di molti dei prigionieri italiani che avevano collaborato alla costruzione di quell’italianissimo edificio di culto cattolico.
LA MAIL DI FRANCO MUIA’
Mi scrive, tra l’altro, Franco Muià nella mail del 05 settembre 2018 ore 17,14: “”Ho fatto una copia del giornale “IN ATTESA” per l’associazione culturale “La Radice” di Badolato, la quale ha coinvolto un generale in pensione, studioso e conferenziere sulla storia della seconda guerra mondiale che è stato entusiasta di riceverla. Ho pensato che, come abbiamo cominciato noi a cercare di trovare nomi e storie di calabresi, lo stesso potrebbe interessare a te per altre zone. In ogni caso tu sei la prima persona (dopo La Radice) alla quale faccio avere una copia, con la speranza che ti possa fare piacere. Se anche non sarà di tuo più diretto interesse per una ricerca storica, potrai passarla ad altri studiosi oppure pubblicarla su www.costajonicaweb.it poiché sono sicuro che interesserà a tante altre persone””.
Di fronte ad un simile prezioso cimelio storico ed umano mi sono commosso, pensando non soltanto ai prigionieri italiani in Sud Africa, ma anche ai tantissimi altri italiani che hanno sofferto nei numerosi campi di prigionia o di concentramento degli Alleati e dei Tedeschi disseminati in molte parti del mondo, dagli Stati Uniti all’India, dalla Germania all’Australia.
DIARI DI GUERRA E DI PRIGIONIA DI ALTRI AMICI
Come già sai, ho letto alcuni preziosi diari di guerra e di prigionia, tra i quali quelli scritti da Francesco Petrolo (originario di Pietracupa, frazione montana di Guardavalle) scampato fortunosamente ad una fucilazione di massa in un campo di concentramento tedesco in Germania, nonché da Vittorio Cervellini, ufficiale marchigiano prigioniero degli Inglesi in India.
Inoltre, voglio qui ricordare, seppure di sfuggita, anche il diario di guerra e di prigionia russa di Pasquale Lacroce (classe 1920) di Isca sullo Jonio, di cui ho fatto cenno (riproducendo la suggestiva prima pagina autografa del quaderno, grazie al figlio prof. Agazio) alle pagine 231-233 nel secondo volume del “Libro-Monumento per i miei Genitori” (2005-2007).
ANGELO MUIA’ di SIDERNO (RC)
Il padre di Franco Muià, Angelo, è nato a Siderno (RC) il 19 gennaio 1913. Emigrato a Genova nel 1928, a soli 15 anni, Angelo era tornato in tarda età a Siderno, dove è morto nell’agosto 2003. Ines Conforti, moglie di Angelo e madre di Franco, è nata nel 1913 a Napoli dove sua mamma studiava da ostetrica. Angelo Muià è stato un marittimo per ben 51 anni della sua vita. Anche quando è stato catturato nel 1941 in Africa era imbarcato su una nave rimasta bloccata a Massaua (in Eritrea) dall’entrata in guerra dell’Italia. E’ rimasto prigioniero degli Inglesi dal gennaio 1941 al novembre 1945 nel campo di Pietermaritzburg nel Sud Africa orientale.
Essendo pure un bravo cuoco, gli Inglesi gli hanno permesso di lavorare a lungo in un albergo di Durban. Al rimpatrio, in quel novembre 1945, la direzione di tale albergo gli propose di rimanere a lavorare lì, ma Angelo preferì tornarsene in Italia. Comunque, sono stati parecchi gli italiani che sono rimasti in Sud Africa, dove hanno lavorato e dove si sono formati una famiglia, come il siciliano Gregorio Fiasconaro (Palermo 1915), il cui figlio Marcello (nato in Sud Africa nel 1949) è stato poi campione italiano di atletica leggera (come si può leggere più avanti nelle “Letture parallele”).
UNA MINIERA D’ORO ….
Nella mail di lunedì 17 dicembre 2018 ore 18,01 Franco Muià mi ha informato che un suo zio, fratello di papà Angelo, è stato fatto prigioniero assieme a migliaia di altri nostri soldati dagli inglesi nel maggio 1943 durante la sfortunata ma eroica battaglia di El Alamein in Egitto. Poi gli inglesi cedettero agli americani parte di questi prigionieri di guerra (tra cui il militare Muià) i quali furono internati nel campo di Honolulu (nelle lontanissime isole Hawai, nel bel mezzo dell’oceano Pacifico) fino alla loro liberazione nel 1946.
Nella medesima mail mi ha inoltre scritto: ““Ultimissima notizia: due ore fa, sballando alcuni scatoloni, ho trovato un altro quaderno di appunti di mio padre.
Schede di viaggio del 1957 con nome della nave, tipo di carico, itinerario, tempi e distanze.
Ho letto solo le prime due pagine, sembra una miniera d’oro, però adesso non ho tempo da dedicargli, spero a gennaio, quando dovrei essere meno impegnato””.
LE MEMORIE
Tutto questo e tanto altro fanno parte delle “memorie” che Angelo Muià ha sentito il desiderio di scrivere in prevalenza a Siderno, dove era tornato da pensionato. Scritte a mano su quaderni scolastici, il figlio Franco si è premurato di trascriverle in formato digitale.
““Non sono però ancora pronto a diffonderle – afferma Franco – perché intendo svilupparle con una serie di mie note e di immagini relative a quanto racconta. Ad esempio, nelle memorie scrive del suo primo imbarco a Genova da ragazzino, dettagliando oltre al nome della nave anche l’itinerario preciso con tutti i porti d’approdo, uno per uno. Ho cercato in internet ed ho trovato la scheda della nave, con foto e altra documentazione, nonché l’itinerario fisso che faceva da Genova fino in India. Tutti i porti coincidevano perfettamente per nome e sequenza con quelli elencati da mio padre! Incredibile, considerando che pure io ho navigato durante gli anni ’70, però ricordo soltanto i nomi delle navi ma non tutti i porti che toccavamo””.
Prosegue Franco: “”Sempre seguendo le memorie scritte da mio padre, ho trovato i due indirizzi precisi dove ha alloggiato appena arrivato a Genova da Siderno. Le case sono ancora lì, in pieno centro storico, presso il Porto Antico, quindi in luoghi che adesso sono diventati di alto interesse turistico (ne ho fotografati i portoni e sto cercando chi vi abitava in quegli anni). Tutto questo vorrei inserire nel pubblicare le sue “memorie”, con note e collegamenti multimediali. Ho cominciato a farlo, ma sono solo all’inizio. Infatti sono più impegnato ora di quando facevo il fotografo a Badolato!””.
UNA PAGINA DAL DIARIO DI ANGELO MUIA’
Ecco un estratto dalle memorie di Angelo Muià (1913 – 2003), scritte alla fine degli anni ’90, per come partecipatomi (via mail) dal figlio Franco nel novembre 2018:
“”… A dicembre del 1940 sono stato chiamato dal comandante Mazzella, che era stato assegnato come comandante della Capitaneria di Porto di Assab dopo il richiamo. Mi ha detto che le cose si erano messe male e che lui voleva tentare di lasciare l’Eritrea con la nave, andare in Giappone e tentare di raggiungere la Germania. Sapeva che era un’impresa molto difficile ma voleva tentare. Avrebbe chiesto l’autorizzazione al ministero e se l’avesse avuta desiderava che tutti quelli che facevano parte dell’equipaggio del Sebastiano Caboto partissero con lui. Mi ha chiesto se io ero disposto ad appoggiare questo tentativo. Io ho detto subito di sì e così ai primi di gennaio del 1941 siamo ritornati tutti a bordo e siamo partiti per Massaua, dove avremmo fatto revisione delle macchine, fatto rifornimento e provviste e saremmo partiti per questa avventura. Arrivati a Massaua ci hanno attraccati alla banchina e dopo il secondo giorno che eravamo lì ci hanno mandati tutti al comando militare. Ci hanno fornito un fucile, due caricatori e due bombe a mano e ci hanno mandati al fronte che si era formato a due chilometri da Massaua. Al terzo giorno ci siamo ritirati perché incalzati dall’avanzata delle truppe alleate, formate dalla Legione Straniera e da indiani. A Massaua ci hanno ordinato di consegnare le armi ai magazzini e lasciati alla ventura, senza acqua e senza viveri. Senza acqua a Massaua era molto brutto. A Massaua l’acqua veniva da Asmara. Le truppe di occupazione avevano tagliato i tubi però c’erano dei depositi che per un po’ di tempo avrebbero potuto essere utili alla popolazione. Ma il nostro comando militare li ha fatti chiudere, non si sa perché. Io ero riuscito a farmi un rifornimento da un abbeveratoio per i cavalli che si trovava vicino ad un rifugio dove mi ero nascosto. Eravamo sbandati e ognuno si arrangiava come poteva. Io ero riuscito a trovare un rifugio con l’aiuto delle donne eritree. Hanno cercato di aiutare tutti quelli che potevano e tante di loro hanno avuto dei fastidi con le autorità di occupazione. Ma dopo tre giorni sono stato costretto, come tanti altri, a consegnarmi alle truppe di occupazione che rastrellavano la città e fermavano tutti quelli che non potevano dimostrare che erano civili, cioè dovevano avere un tesserino che dimostrava che erano impiegati civili …””
MEMORIA E GENEALOGIE
In attesa di leggere quanto altro vorrà pubblicare (per intero) delle “memorie” del padre, mi sembra opportuno evidenziare il lavoro che Franco Muià sta facendo da qualche anno a questa parte: rintracciare le genealogie, i luoghi, i parenti ancora in vita di emigrati italiani (soprattutto calabresi) ai quali interessa sapere qualcosa delle loro origini familiari e paesane. Ecco cosa altro mi ha scritto nelle mail del 05 settembre 2018 alle ore 17,14.
““… Per il resto continuo il lavoro di ricerche storiche per conto di un’agenzia americana, girando la Calabria per studiare i paesi. Questi sono, in maggioranza, paesi fuori dagli itinerari turistici. Scopro cose veramente interessanti e a volte per nulla conosciute. Quest’anno, mi è capitato, per la prima volta, un caso di una famiglia originaria di Badolato (nonni paterni e materni). Giocando in casa, ho potuto fare una buona ricerca e quando i clienti sono arrivati in visita li ho portati a conoscere i cugini ancora in vita e a vedere pure i ruderi della casa di famiglia, crollata assieme a tante altre nel rione Destro durante l’alluvione del 17 ottobre 1951””.
TRE LETTURE PARALLELE
Franco Muià (nelle sue ricerche sui prigionieri italiani nei vari campi inglesi in Sud Africa) ha trovato nel web altri riferimenti a parecchi commilitoni di suo padre Angelo, alcuni dei quali sono diventati famosi, come, ad esempio, il musicista e cantante lirico Gregorio Fiasconaro (nato nella provincia di Palermo nell’anno 1915). Costui nel 1949 ha generato in Sud Africa il figlio Marcello, primatista italiano di atletica leggera. E questa dei Fiasconaro è la “Prima Lettura”, mentre la “Seconda” riguarda “I diavoli di Zonderwater” e la “Terza” illustra le imprese dI Ezio Triccoli, maestro di scherma per tanti campioni olimpici, tra i quali la plurimedagliata Valentina Vezzali.
DUE ALLEGATI
Caro Tito, in allegato puoi trovare due documenti assai interessanti, entrambi riguardanti la chiesetta costruita in 13 mesi (dal febbraio 1943 al marzo 1944) dai prigionieri italiani nel campo di Petermaritzburg, nel Sud Africa orientale, non troppo lontano dalla città di Durban. Il primo documento è il numero unico del giornalino di campo “IN ATTESA” di cui ti ho accennato ad inizio lettera. Il secondo è una breve relazione (sempre su tale chiesetta della Madonna delle Grazie) che va dalla costruzione fino al 2008.
PRIMA LETTURA PARALLELA
DALLA BIOGRAFIA DI GREGORIO FIASCONARO
“”…La prima parte la ottiene quando ha sette anni, in quella scena di entusiasmo infantile che viene all’inizio del secondo atto della Boheme: “Vo’ la tromba e il cavallin”. E’ molto probabile che nella scelta del siciliano Gregorio Fiasconaro abbia avuto parte e influenza sua mamma, Rosalia Calderoni, eccellente soprano. Una strada era stata imboccata: nel 1932, a 17 anni, Gregorio, allievo al conservatorio Niccolò Paganini di Genova, debutta da baritono al Carlo Felice e malgrado la giovane età in scena è Giorgio Germont, padre di Alfredo, il disperato amante della Traviata.
Per chi, in quegli anni, è nato tra il 1915 e il 1922 le grandi promesse vengono stroncate dalle bufere che si addensano all’orizzonte. Gregorio è del ’15, ha 25 anni quando Mussolini dichiara guerra alla Francia e alla Gran Bretagna, ne ha 26 quando viene destinato all’Africa Orientale. Ha il tempo di incrociare Visentin, l’asso dei Fiat Cr42, nei giorni di turno in cui i vecchi biplani mimetizzati riescono a tenere testa agli Hurricanes. Un giorno lo attendono invano: sparito in quella successione di montagne. Sono le amba aride, caldissime di giorno, gelide di notte, ed è in cima a una di queste – l’Amba Alagi, già noto agli italiani sin dal tempo della prima colonizzazione in Eritrea – che si compirà il fragile destino imperiale della piccola Italia. La resa di Amedeo Duca D’Aosta avviene al suono delle cornamuse degli Scottish Transvaal. Il bel vicerè si avvia verso un breve esilio in Kenya, prima di esser vinto dalla malaria. Per tutti gli altri – saranno quasi centomila – un viaggio per mare verso Durban, il porto sudafricano sull’Oceano Indiano, l’internamento, gli anni duri, la necessità di renderli meno aspri: si gioca al calcio, si tira di boxe, si fondano corali. Il pilota Gregorio Fiasconaro può tornare al suo grande amore.
Quando i campi si svuotano, quando il filo spinato viene abbattuto, molti tornano a rivedere figli intravisti, a cercare case che non sono più. Il baritono rimane: il Sudafrica di quegli anni si avvia a diventare un paese autoritario, intollerante, ma nessuno può negare non offra opportunità. Trova lavoro al teatro dell’opera dell’Università di Cape Town, canta (il suo cavallo di battaglia è il malvagio Scarpia della Tosca), dirige, organizza. Tocca a lui guidare la giovane compagine nel tour del ’56 a Londra, quando per la prima volta in Gran Bretagna viene rappresentato il Castello di Barbablu di Bela Bartok. Applausi e consensi: non è frequente trovare chi si avventuri nel campo delle moderne proposte, lasciando il facile sentiero del repertorio più consueto. Quando Gregorio ritorna da Londra, suo figlio Marcello ha sette anni, ha cominciato le elementari e uno degli oggetti che inizia a rimbalzare nella sua vita è una palla ovale.””
DALLA BIOGRAFIA DI MARCELLO FIASCONARO
Marcello Luigi Fiasconaro (Città del Capo, 19 luglio 1949) è un ex mezzofondista, velocista e rugbista a 15 sudafricano naturalizzato italiano, specializzato nei 400 e 800 metri piani. È stato primatista mondiale degli 800 metri piani dal 1973 al 1976, in rappresentanza dell’Italia. Nel rugby giocò invece nel ruolo di tre quarti ala.
Nato a Città del Capo da Gregorio — musicista proveniente dalla provincia di Palermo deportato in Sudafrica dalle forze britanniche come prigioniero durante la seconda guerra mondiale e lì rimasto come insegnante di musica — e da Mabel Marie, di Pietermaritzburg, Marcello Fiasconaro crebbe sportivamente nel rugby, giungendo a militare nelle giovanili del Western Province, la formazione della allora Provincia del Capo; affiancò l’atletica al rugby quando l’allenatore del Villagers, il club per il quale giocava, decise di far compiere allenamenti di fondo ai giocatori per rinforzare la loro tenuta.
Invitato per alcune gare di atletica in Italia nel 1970, ottenne il passaporto italiano l’anno successivo, gareggiando inizialmente nei 400 metri e ottenendo subito ottimi risultati a livello internazionale. Ai campionati europei di Helsinki del 1971 conquistò la medaglia d’argento nella gara individuale e la medaglia di bronzo correndo la frazione conclusiva della staffetta 4×400. Nel 1972 stabilì il primato mondiale indoor dei 400 metri con 46″1. Tesserato dal 1972 per il CUS Torino e passato agli 800 metri, stabilì il record mondiale all’Arena Civica di Milano il 27 giugno 1973, correndo contro uno dei più forti specialisti d’Europa, il cecoslovacco Jozef Plachý. Il suo tempo di 1’43″7 migliorò di 6 decimi il record precedente, detenuto da Peter Snell, Ralph Doubell e Dave Wottle, e fu battuto solo tre anni più tardi dal cubano Alberto Juantorena alle Olimpiadi di Montréal del 1976.
La sua carriera fu ostacolata da infortuni ai tendini che gli impedirono di partecipare nel 1972 ai Giochi Olimpici di Monaco di Baviera e di continuare l’attività. In Italia ebbe anche una breve parentesi nel rugby (otto mete in cinque gare di serie A con il CUS Milano nel campionato 1976-77). Il suo esordio rugbistico in Italia fu caratterizzato da una meta segnata agli Amatori Catania. In quanto dilettante, fu assunto durante tale periodo come impiegato alla Concordia, compagnia di assicurazioni che garantiva la sponsorizzazione al club. Nel 1977 fece un breve ritorno all’atletica prima di chiudere con l’attività sportiva nel 1978 e tornare in Sudafrica. Complessivamente Marcello Fiasconaro conquistò 5 titoli italiani di cui 2 nelle competizioni indoor, e vestì la maglia azzurra per 12 volte.
SECONDA LETTURA – I diavoli di Zonderwater
Zonderwater era uno dei tanti campi di prigionia dove sono stai rinchiusi (dal 1941 al 1947) decine di migliaia di soldati italiani in mano all’esercito inglese. Su tale campo, lo scrittore Carlo Annese ha scritto il saggio storico “I diavoli di Zonderwater” (libro edito nel 2010 da Sperling & Kupfer). Qui di seguito riporto una breve recensione che ne fa Gian Paolo Grattarola, per come mi è stata recentemente inviata via mail da Franco Muià.
I DIAVOLI DI ZONDERWATER
Dal 1941 al 1947 circa 94.000 soldati italiani, caduti nelle mani delle forze anglo-americane nel corso delle disastrose campagne militari in Africa orientale e nel deserto libico, furono tradotti in Sudafrica e rinchiusi nel campo di Zonderwater.
Posto su di un vasto altopiano distante una cinquantina di chilometri da Pretoria, il campo di prigionia assunse – a mano a mano che affluivano i detenuti – la fisionomia di un autentico territorio urbano diviso in 14 rioni collegati da trenta chilometri di strade. Una città dotata di case in muratura, due ospedali con 3000 posti letto in cui gli ufficiali medici italiani effettuarono interventi operatori anche su cittadini sudafricani, quindici scuole dove 9000 analfabeti impararono a leggere e scrivere e 2500 presero il diploma elementare, biblioteche continuamente rifornite e una rivista settimanale dal titolo “Tra i reticolati”. E poi laboratori artistici e artigianali, chiese e teatri, campi da tennis, pallavolo e pallacanestro, sale da scherma, ring per incontri di pugilato e soprattutto 16 terreni di gioco su cui vennero disputati veri e propri campionati di calcio…
Denso di informazioni, aneddoti e dettagli ricavati da un lungo sforzo di ricerche condotte tra interviste agli ultimi reduci e consultazioni di documenti forniti dai discendenti, il libro “I Diavoli di Zonderwater” ha il pregio indiscutibile di colmare una profonda lacuna storiografica. Scritto con stile appassionato e coinvolgente, tale memoriale di Carlo Annese – caposervizio de La Gazzetta dello Sport e autore di una biografia di Jury Chechi – costituisce di fatto il resoconto più autorevole ed esauriente mai scritto prima sugli avvenimenti del campo di prigionia alleato, in cui venne recluso il più alto numero di soldati italiani durante la Seconda Guerra Mondiale.
Utile come “reference”, non manca di spunti interessanti, a partire dalla scelta di condurre la trattazione in un senso dichiaratamente narrativo, che attraverso la ricostruzione di alcune vicende individuali, dalla mezz’ala del Torino Giovanni Taglietti al terzino sinistro della Juventus Araldo Caprili, dai pugili Giovanni Manca e Gino Verdinelli al baritono Gregorio Fiasconaro (padre di quel Marcello Fiasconaro che deterrà a lungo il record mondiale di atletica sugli 800 metri), restituisce dignità umana a un’intera generazione di nostri connazionali, sottraendola alla memoria perduta della nostra storia.
TERZA LETTURA
EZIO TRICCOLI MAESTRO DI SCHERMITORI OLIMPICI
Ezio Triccoli (Jesi 1915 – 10 maggio 1996) al momento della cattura da parte degli inglesi era sergente maggiore dell’esercito italiano. E’ stato poi un campione di scherma sportiva. Apprende tale sport da un sottufficiale inglese durante la sua prigionia nel campo di internamento di Zonderwater, negli anni quaranta del 20° secolo, durante la seconda guerra mondiale. Al suo ritorno a Jesi, nel 1947, fonda il Club Scherma Jesi (provincia di Ancona), dove inizia a formare le future schiere di campioni del fioretto. È stato maestro di numerosi campioni del calibro di Susanna Batazzi, Doriana Pigliapoco, Anna Rita Sparaciari, Stefano Cerioni, Giovanna Trillini e Valentina Vezzali.
Tutto, quindi, ebbe inizio in Sudafrica durante la seconda guerra mondiale. Il sergente maggiore Triccoli è prigioniero nel campo di concentramento di Zonderwater. Ed è proprio lì che, durante la detenzione, apprende i primi rudimenti della scherma da un sottufficiale inglese. Ne resta rapito. Costruisce lame e maschere con tutto ciò che il deserto e l’aspra vita di prigioniero può offrire. E sogna. Sogna di tornare a Jesi e fondare una scuola di scherma. Nel 1947, al ritorno nella sua città natale, inizia ad insegnare scherma su invito di due studenti. Un anno dopo nasce il Gruppo schermistico jesino. Triccoli avvicina alla scherma i primi ragazzi. Non ha però il titolo professionale di maestro, che conseguirà solo nel 1962 all’Accademia di Napoli. Lievitano intanto gli atleti e gli impegni, mentre la scherma jesina comincia ad imporsi nel panorama nazionale e internazionale.
Triccoli apporta una vera rivoluzione nella scherma. Supera una visione classica della postura e dei movimenti in pedana. Triccoli introduce delle vere e proprie “eresie”, nella posizione del polso, nelle cosiddette “abbreviature” dei movimenti classici studiate anatomicamente per garantire maggiore velocità ed efficacia, passando per lo zigzagare in pedana e per i colpi imprevedibili di Stefano Cerioni, colui che Triccoli designerà come suo erede al Club scherma.
Lo stile, secondo Triccoli, non può contrastare con l’efficacia atletica: «Io non sacrificherò mai una caratteristica personale, un movimento naturale, un atteggiamento di gara imprevisto di un atleta con il pretesto che non risponde ai canoni».
Per il maestro non è stato un percorso facile. Triccoli e i suoi campioni hanno dovuto combattere contro forti pregiudizi. A cavallo tra anni ’80 e ’90 molti tecnici storcevano il naso davanti al modo di fare scherma di Stefano Cerioni e Giovanna Trillini. Si diceva che vincessero (e vincono) più per rabbia competitiva che per tecnica. Nulla di più falso per Maria Cristina Triccoli: «Mio padre sapeva che in quei due combattenti della pedana la tecnica era talmente acquisita, così automatizzata, da non essere più visibile».
Gli anni intanto passano. Jesi diventa sinonimo di fioretto e i suoi talenti continuano a snocciolare successi. I riflettori sulla scherma si accendono però solo ogni quattro anni per le Olimpiadi. E loro, i campioni, non sfuggono mai all’appuntamento con questo ristretto cono di luce.
Nel 1992 Jesi attribuisce a Triccoli la cittadinanza onoraria della città. È ormai anziano, ma non perde occasione per stare accanto ai suoi atleti nella palestra di via Solazzi. Fino all’ultimo giorno va in pedana a fare lezione. Ezio Triccoli muore a 80 anni, nel maggio del 1996, pochi mesi prima delle Olimpiadi di Atlanta, dove una delle sue ultime allieve, un’allora giovanissima Valentina Vezzali, avrebbe conquistato le prime 2 delle 9 medaglie olimpiche che le valgono il titolo di terza schermitrice per numero di medaglie ai giochi, mentre invece è in testa nella classifica per numero di ori. Il Palazzetto dello Sport di Jesi è oggi intitolato alla memoria di quest’uomo schivo che ha introdotto la scherma in città quasi per caso e ha lasciato in eredità la più alta conquista di medaglie della storia di questo sport.
IL FASCINO DEL VISSUTO AUTOBIOGRAFICO
Caro Tito, le biografie, si sa, hanno molto fascino ed attraggono per il vissuto di chi scrive, da cui il lettore è naturalmente attratto, pure perché si confronta e si analizza. Le autobiografia di guerra sono tra le memorie più appassionanti. Come, ad esempio, quella di un medico siciliano di Regalbuto, su ciui ho trovato tracce nel sito “vivienna.it”.
Da vivienna.it di Agostino Vitale … prime lezioni di scherma al terzo blocco con il Capitano Serafino La Manna, un medico trentaseienne di Ragalbuto in provincia di Enna, ex professore universitario di anatomia patologica, catturato il 6 febbraio 1941 ad Agedabia in Libia …
TARSIA “CAPITALE PER LENIRE IL GRANDE DOLORE DEL MONDO”?
Caro Tito, ieri sera, sabato 19 gennaio 2019 ho telefonato al sindaco di Tarsia (CS), avvocato Roberto Ameruso (42 anni), con il quale (grazie alla sua generosità d’ascolto) mi sono intrattenuto in una lunga conversazione (dalle ore 18,25 alle 18,52 circa). Abbiamo parlato di alcuni aspetti che recentemente hanno portato il suo Comune alle cronache anche internazionali (la vendita delle case in disuso, il campo di concentramento di Ferramonti, il cimitero per i migranti).
Inoltre, mi ha informato su talune importanti prospettive future sulle quali si sta concentrando il suo impegno di cittadino e di sindaco di Tarsia; mentre gli ho preannunciato l’invio (all’indirizzo della sua mail) della “Lettera a Tito n. 234” che, tra tanto altro, cita il ruolo del Campo di concentramento di Tarsia nel contesto dei “campi del Duce” e della “Shoah” durante la Seconda guerra mondiale.
Infatti, gli ho inviato (in link e in allegato) il testo e le foto di tale Lettera 234 per come pubblicata da www.costajonicaweb.it e per come ripresa dai consueti 4 siti internet amici: due siciliani (www.trapaniok.it di Trapani e www.quotidianosociale.it di Palermo) e due calabresi (www.soveratoweb.com di Soverato e www.agenziacalabrianotizie.com di Catanzaro) che ringrazio anche qui e ancora e sempre per la puntuale e grande gentilezza dimostrata verso questa rubrica settimanale delle “Lettere a Tito”.
Tra l’altro, ho detto al sindaco Ameruso che ho già pronta una “Lettera a Tito” in cui discorro dell’iniziativa di “Tarsia in vendita” (che si ispira alla mia vicenda di “Badolato in vendita”). E, tenuto conto di quella lontana esperienza, mi sono permesso di dargli qualche umilissimo suggerimento. Soltanto “qualche” piccolo suggerimento, visto e considerato che oggi internet e altri numerosi mezzi di informazione e di diffusione “in tempo reale” rendono tutto molto più facile rispetto al biennio 1986-88 quando ancora non c’erano questi mezzi di comunicazione così veloci, diffusi e a rete globale.
Mi sono poi trovato in sintonia con taluni valori etici, civili, sociali e storici nutriti dal sindaco Ameruso, il quale si è mostrato propenso ad accogliere, in linea generale, la mia proposta di lavorare insieme per fare di Tarsia una “capitale per lenìre il grande dolore del mondo” (tema cui sono particolarmente legato e che ti ho illustrato con la “Lettera per stupire il mondo n. 1 da te pubblicata sabato 13 gennaio 2018, giusto un anno fa. Ecco il link: http://www.costajonicaweb.it/lettere-per-stupire-il-mondo-n-1-le-premesse-placare-tutto-il-dolore-del-mondo/).
Visto, quindi, in quale e quanta considerazione tiene quella che abbiamo sempre indicato come “Calabria prima Italia”, ho messo in contatto il sindaco Ameruso con il filosofo di Soverato, Salvatore Mongiardo, il quale si è detto non soltanto disponibile, ma assolutamente entusiasta di recarsi a Tarsia per tenere una conferenza a riguardo e di collaborare (per quanto possibile) per contribuire a rendere questo strategico Comune cosentino … Centro di più grande attrazione ed elaborazione socio-culturale nel contesto di un incipiente “Rinascimento della Calabria”. Ovviamente ti terrò aggiornato su eventuali ed auspicabili sviluppi.
SALUTISSIMI
Caro Tito, spero veramente che, allegando a questa lettera n. 235, copia (ormai storica, risalente al 1944) del giornale “IN ATTESA”, questo cimelio possa interessare te e i nostri lettori. Intanto ci diamo appuntamento alla prossima “Lettera n. 236” con un altro argomento. Grazie e cordialità!
Domenico Lanciano