Terreni per il grano: come procurarseli


 Dice Draghi che c’è una questione meridionale, e promette che interverrà. Secondo me, è di interventi che il Meridione muore dal dopoguerra, e di “creazione di posti di lavoro”, il che significa di fatto assistenzialismo indiretto. E molto spesso, moltissimo spesso, ogni “posto di lavoro” artificiale è stato un artigiano in meno, un contadino in meno. Il Meridione ha bisogno di economia reale, cioè di produzione e commercializzazioni di beni e servizi. E inizio, oggi, con un esempio.

 La Regione Calabria vorrebbe reperire terreni da coltivare a grano. È musica per la mie orecchie. Io, infatti, penso che la sola giustizia possibile sia distribuire, in parti ovviamente non uguali, ma quello che c’è. E siccome le cose non spuntano da sole – tranne i funghi – bisogna produrle attraverso il lavoro. C’è chi ha scritto delle lettere per dimostrare che il lavoro è una disgrazia: ma bisognerebbe cancellarle dai libri di scuola.

 Veniamo al grano. Il grano si semina, si protegge da passeri e zizzania, si miete, si macina, s’impasta e si mangia. Per tutto questo, occorre la terra, senza la quale il grano non esiste.

 Il grano è fatto di chicchi, ognuno dei quali, da solo, non serve a niente; perciò di chicchi ce ne vogliono come nell’antico gioco della scacchiera: uno, due, quattro, otto, sedici, trentadue… continuate, e quando arrivate alla casella sessantaquattro, sarete ai milioni e milioni. Ovvero, per produrre molto grano serve molta terra. E quando a qualche matto demagogo venne in testa di dividere le terre di grano tre ettari a testa, il risultato fu l’abbandono o, sul mare, l’abusivismo delle seconde e terze case. Lo stesso per le cosiddette quote, in dialetto “cote”, oggi desertificate.

 Come si fa? Con un censimento serio della terra; e l’esproprio di fatto delle terre abbandonate. Non spaventatevi, non sono diventato bolscevico; al contrario, applico il Codice Civile del 1942, che, in succo, dice che la terra va a chi la coltiva; anche, anzi soprattutto con finalità nazionale e beneficio della comunità.

 È quello che io chiamo, non oggi per la prima volta, ESPROPRIO PROPRIETARIO: ovvero, se un imprenditore agricolo (vero, genuino, controllabile!) ha della terra, e quella confinante è in abbandono da anni, la prende in fitto per un euro l’anno; se l’intestatario non è reperibile, consegna l’euro al Comune. L’intestatario? Il pezzettino di 190 metri quadri con cui io confino (posso esibire la mappa) è di sei proprietari a circa trent’anni fa, e oggi saranno diventati una ventina. Ebbene, si spartiscano l’euro.

 Come si fa a convincere i proprietari ad accontentarsi di un euro in venti? Una bella tassa sull’incolto.

 Insomma, “le grida, a rigirarle… ”

 Ecco come la Regione potrebbe raggiungere (leggiamo sui giornali) “l’autosufficienza” dei cereali. Una volta si chiamava autarchia.

Ulderico Nisticò