Dal XVI secolo, la storia dell’Europa è quella di guerre tra Stati dinastici, poi, dal XIX secolo, Stati nazionali. Non è qui il caso di riassumerle, e cito solo la Prima guerra mondiale, 1914-18; e la Seconda, 1939-45; mondiali, ma soprattutto europee, e combattute da Stati europei in Europa.
Nella primavera del 1945, l’Europa si trovò occupata ad ovest da truppe americane con supporti inglesi e francesi; ad est da truppe sovietiche. Erano gli accordi che vanno sotto il nome di Yalta, tra Mosca e Washington. I Sovietici giunsero fino all’Elba, dominando gli attuali Stati di Estonia, Lettonia, Lituania, Polonia, R. Ceca, Slovacchia, Ungheria, Romania, Bulgaria; e la Germania Est, detta Democratica, in senso di comunista. Gli USA, più morbidi, formarono una NATO, con G. Bretagna, Olanda, Belgio, Lussemburgo, Italia, grecia; e, a modo suo, Francia; e la Germania detta Federale.
Erano neutrali, o per forza o per scelta, Finlandia, Iugoslavia, Austria; e, per altre ragioni, lo è la Svizzera.
Parte dell’Europa era uscita devastata anche fisicamente dalla guerra: città britanniche e tedesche, e dell’Italia Settentrionale. La ricostruzione fu rapida, con ripresa delle attività industriali e dell’economia.
Nel 1957, Francia, Olanda, Belgio, Lussemburgo, Germania Ovest, Italia diedero inizio a quella che, dopo varie vicende, è oggi l’Europa Unita.
Questa ha una certa integrazione economica, o piuttosto finanziaria con l’adesione di buona parte degli Stati all’euro. È fievole quando non scarsa l’integrazione politica; del tutto assente una politica estera comune, anzi gli Stati continuano a farsene ognuno la sua, in particolare la Francia. Quanto a forze armate, tutti gli Stati, anche quelli ex sovietici, fanno parte della NATO, che non tollera sovrapposizioni e dualismi; e gli eserciti degli Stati europei sono di fatto sotto comando statunitense, con qualche elasticità. La gestione delle cose è in mano alla Commissione, quando non alla burocrazia di Bruxelles.
Dopo 62 anni, non si è fatto alcun passo verso l’unità politica; mentre sussiste una certa integrazione economica.
Nel 1962 venne istituito, sulla carta, un Parlamento europeo, ma che solo nel 1979 venne eletto direttamente dai cittadini. I suoi poteri, sulla carta, sussistono; di fatto sono deboli. La ragione è la scarsa qualità personale dei membri del P.E., che sono, in generale, di due tipi:
– capi partito, al fine di immagine e rappresentanza, e che nemmeno ci vanno;
– tromboni trombati alle elezioni nazionali o regionali, e da consolare con lauto stipendio. Non costringetemi a fare cognomi.
La mia speranza, o illusione che dir si voglia, è che il 26 maggio 2019 risulti eletto un P.E., o, piuttosto, risultino eletti parlamentari di tutt’altro spessore dei predecessori.
Cosa sogno? Che il P.E. 2019 convochi al suo cospetto i vari Juncker, Moscovici, Draghi, Mogherini, Abramopulos eccetera, e imponga loro di riferire che fanno, che vogliono, eccetera.
Se non si presentano, il P.E. in massa si rechi a Bruxelles, occupi il palazzone, e pretenda di farsi ascoltare. Per fare questo, non servono poteri sulla carta, ma baffi sulle labbra! Capito la metafora?
La storia insegna che le istituzioni si autoriformano (ius condendum, e poi, solo poi, conditum), e allargano il potere, con o senza codificazione. Per i dotti, due esempi antichi: gli efori a Sparta, i tribuni della plebe a Roma.
Ulderico Nisticò