Salvatore Gentile e la bellezza del senso di appartenenza


Turi ‘e Malanima, come veniva identificato in paese, aveva un soprannome che contrastava con la nomea che col tempo si era guadagnato. Egli era piuttosto una bell’anima, ma tant’è le famiglie nei paesi vengono apostrofate di frequente da soprannomi che poi non calzano affatto agli eredi.
Apparteneva a quegli uomini di un passato non ancora distante per anagrafe, ma lontano per dimensioni umane e valori. Quella di Salvatore è stata una vita da bracciante agricolo e pastore, trascorsa nel silenzio della campagna calabrese, condivisa fra lavoro e famiglia. Le poche volte che lo si incontrava a Stalettì, suo paese natio, si era al cospetto di una persona semplice, umile, che non alzava la voce neanche contro la malasorte, pur avendone diritto. Quel silenzio non merita di essere taciuto.

Scavando nel miei ricordi, egli mi appare circa cinquant’anni fa, quando assieme a mio padre era impegnato in uno scavo per Giovanni Gatti e il suo Motel a Copanello. I due picconavano l’aspro tufo a un ritmo costante ed energico, mentre il sole estivo picchiava come i loro arnesi. Grondavano sudore, ma non si fermavano mai, colpi su colpi per otto, dieci, dodici ore. A me bambino spettava il compito di consolarli portandogli l’acqua, mantenuta fresca dalla vozza di ceramica squillacese. Avvicinandomi sentivo il loro respiro ritmato cadenzarsi più forte quando le loro braccia sbattevano il piccone dall’alto in basso contro la terra secca, che affettandosi sbriciolava. A ogni mio viaggio Salvatore aveva una battuta pronta. Mi faceva sorridere, consolandomi come se fossi io ad aver bisogno di una pacca sulle spalle e non loro, stanchi, fradici e con i calli che non gli facevano più sentire le mani. Mi chiedevo dove trovassero quella forza. Allora non conoscevo le asprezze dei loro trascorsi e non potevo capire che quelli non erano muli da fatica, ma dei giganti.

Qualche anno dopo l’ho scoperto come preciso e indomito potatore, mentre arrotondandoli faceva respirare gli ulivi del cavaliere Antonio Mosca, alla Lucerta. E non perdeva occasione di spiegarmi perché quel ramo si doveva tagliare in quel modo. Mi parlava degli ulivi svelandomi quella che era stata la loro storia fino a quel momento, con aneddoti così intimi di gioie e dolori, come se mi stesse raccontando la vita degli uomini piuttosto che quella delle piante. Nelle sue descrizioni non c’era solo passione per il proprio lavoro, ma rispetto e amore per la natura, la vita. E nello stargli accanto scoprivo la bellezza del senso di appartenenza alla mia gente.

Ci siamo ritrovati poi vicini di casa a Stalettì, ma la sua serenità non durò a lungo. A cinquantasette anni, mentre era impegnato nella raccolta delle olive, Salvatore fu colpito da un ictus che gli impedì di utilizzare correttamente entrambi gli arti. E lui che si dispiaceva ogni qualvolta doveva andare dal medico, per il tempo che avrebbe rubato alla campagna e ai suoi animali, fu costretto improvvisamente a rinunciarvi per sempre. La consapevolezza di dover abbandonare la sua amata campagna all’ Abbatìa nelle mani dei figli, per lui che si caricava di fatiche immane deve avergli provocato un dolore devastante.

Un increscioso infortunio portato con dignità per ventiquattro anni fino al suo onomastico, il due giugno scorso. Stava aspettando come al solito la processione che solitamente passava proprio attorno alla sua casa. La finestra socchiusa come l’imposte e lui là dietro, vigile e in attesa, assieme alla moglie Teresa e ai figli, Pino e Mario. Poi d’improvviso un dolore forte e lui che non si lamentava mai, evitando disturbi e dispiaceri ai familiari, si è lasciato andare a una smorfia:
«Mario, ‘u Signura mi pighhjiàu ‘a gamba bona»
Ha stretto i denti e resistito per salutare ancora una volta il “Corpus Domini”. Poi il congedo dalla compagna di una vita:
«Tirè, ti dassu.»
«Duva vai?»
«Mi ‘nda vaju, ma non resti sula, ti dassu i quattru figghjiòli. Ciau Tirè.»
Così se n’ è andato.
“Non è bella la vita dei pastori in Aspromonte, d’inverno…” (scriveva Corrado Alvaro in “Gente in Aspromonte”), non è stata facile la vita per Salvatore, ma è riuscito a vivere le sue vicissitudini con dignità, tracciando un percorso onorevole anche ai suoi figli.
Nelle persone come Salvatore io ritrovo la bellezza della mia gente, assieme al privilegio di aver conosciuto un mondo traboccante di valori, dove la famiglia e il rispetto per la vita, l’amicizia, rappresentavano un cordone ombelicale indelebile.
A uomini come Salvatore Gentile non li perderemo mai, continueranno a vivere nelle “Baracche” di Fortunato Seminara, in uno dei “Racconti calabresi” o nelle “Storie dei fratelli Rupe” di Leonida Rèpaci, cammineranno scalzi tra la “Gente in Viaggio” o suderanno in quella de’ “Il selvaggio di Santa Venere” di Saverio Strati, vivranno la sofferenza di lasciare i propri cari, negli “Emigranti” di Francesco Perri e torneranno a casa con Corrado Alvaro, diventando “Un treno nel Sud”.

Conserverò il tuo saluto, Turi, quel buongiorno che seguito da brevi confidenze rappresentava una benedizione alle mie giornate. E se è vero ciò che affermava Sant’Agostino (che “L’umiltà rende gli uomini uguali agli angeli”) sono certo che il nostro cielo in te avrà un custode in più.

Gregorio Calabretta


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