Non abbiamo ancora smaltito i luoghi comuni sull’8 marzo che, appena dieci giorni dopo, arieccoci con la retorica a buon mercato sulla Festa del papà. Beninteso: il 19 marzo è davvero una festa e non la “Giornata internazionale dei diritti dei padri”, dunque ben vengano gli auguri.
Accanto al diluvio di infantilizzazioni della figura genitoriale paterna che diviene un fratello maggiore giocherellone, un bambinone, un compagno di giochi e mai di compiti, moribondo al primo sintomo di raffreddore, si staglia la rappresentazione autoritaria/autorevole del protettore, dell’eroe, del superpapà, forte, coraggioso e magari anche ricco e di successo. Che controsenso, vero? Si tratta di due (delle tante) anime della medesima cultura che percepisce la figura del padre come subordinata a quella della madre nella cura dei figli e della famiglia, ma anche subordinata a quella del padrone.
Risale appena al 1975 infatti la legge 151 che in Italia abolisce la famiglia patriarcale, depennando la figura del “capofamiglia” e sancendo, tra le altre cose, la parità legale di padre e madre. La riforma del diritto di famiglia ha quasi 50 anni, dunque, ma la cultura patriarcale da cui emanciparci è millenaria. Non basta la legge per liberare le persone dalle prigioni culturali.
La figura materna è sempre stata percepita come biologica, connaturata, uterina; quella paterna è una costruzione culturale esito di un processo – per fortuna evolutivo – relativamente recente. Solo dalla metà del secolo scorso i profondi cambiamenti di costume hanno modificato la percezione della famiglia e dei “ruoli” di madre e padre al suo interno. Gli studi multidisciplinari di neuroscienze, psicologia, pedagogia e sociologia sono confluiti concordemente in una cospicua mole di contributi che hanno letteralmente fatto comparire la paternità nella dimensione relazionale, che richiede un investimento affettivo, di attaccamento e cura, non solo materiale. Il tutto in un orizzonte educativo e progettuale democraticamente inteso accanto e non all’ombra della figura materna. L’apporto scientifico si è nutrito delle rivendicazioni femministe che hanno sempre messo in discussione la cultura patriarcale esortando a una modalità più attiva ed egualitaria di essere padri.
Le neuroscienze ci dicono che gli esseri umani, quando divengono genitori, sono naturalmente predisposti all’accudimento, indipendentemente dal proprio genere. Ne consegue un semplice assioma, che, malgrado le conferme scientifiche e i grandi cambiamenti in atto, fatica ad essere messo in atto nella famiglia tradizionale: i figli si fanno in due, dunque ce ne si prende cura in due.
Eppure la realtà ci dice che la gestione dell’ambiente familiare viene condotta dalle madri, anche se lavorano. Madri che, “però”, ottengono la medaglia, ancora da molti e molte ritenuta gratificante, di capo della casa e della famiglia: che conquista. Molti urlerebbero al matriarcato; Michela Murgia ribatterebbe giustamente con matricentrismo. Che è ben altra cosa, nonchè rovescio della medesima medaglia: il patriarcato.
Quanti padri concorrono davvero alla cura della prole e della famiglia? Intendo non l’andare a prendere i figli a scuola e portarli in palestra, non buttare la spazzatura e passare l’aspirapolvere. Quanti tornano a casa e non trovano pronto, ma si prodigano per farlo? Ok, questi – si spera – sono passi che sono stati già fatti. Andiamo oltre. Occuparsi della gestione domestica non significa chiedere: “Cosa posso fare?” o, peggio, “Come posso aiutarti?”. Significa programmare il lavoro casalingo, sobbarcandosi il carico mentale della gestione familiare, che ha un peso tanto impattante nella vita delle madri quanto trascurato: un frustrante carico di preoccupazioni e pianificazione domestica, come pensare e organizzare i pasti, i regali per festività e compleanni, le pulizie, acquistare, lavare e predisporre l’abbigliamento, gestire la scuola (inclusi i gruppi social…mi rifiuto di chiamarli “gruppi mamme”), merenda, zaini, catechismo, tempo libero, vaccinazioni, visite mediche… Tutto questo peso ha un impatto emotivo e mentale anche quando è ben organizzato, delegato, anche quando i lavori sono equamente condivisi con i padri: nella famiglia tradizionale sono sempre le madri a stabilire l’“ordine del giorno”. Molti hanno il coraggio di chiamarlo matriarcato, ignorando – o fingendo di ignorare – che è patriarcato in tutto e per tutto.
Che impatto ha questo sui figli, oltre che sulle madri? È davvero stabile e sicura una famiglia gestita così?
Siamo tutti così moderni, liberi e disinibiti eppure fatichiamo a superare i radicati stereotipi che vedono le donne, quando diventano madri (anche se lavoratrici), proiettate interamente sul “ruolo” e gli uomini e padri sul lavoro produttivo. Prova ne è che sovente gli uomini, quando divengono padri, ottengono promozioni sul lavoro… Le madri? Nemmeno rispondo, va. Anzi sì: ottengono un nuovo lavoro, part time (se mettiamo il carico mentale full time), e non retribuito: il lavoro di cura.
Quanto sarebbe bello e giusto offrire una rappresentazione della paternità come genitorialità condivisa, di cui gioverebbe tutto il sistema famiglia!
La società ha bisogno di padri che usufruiscano equamente del congedo parentale, che siano affidatari di figli in caso di separazione, che preparino i piatti più buoni del mondo ai propri figli, li lavino, li vestano, preparino e mettano loro la merenda nello zaino. Insomma di padri che facciano i padri, non che lo siano. Un po’ come San Giuseppe, che fece il padre pur non essendolo biologicamente. A combattere per questo, affinchè i padri siano tutto ciò a cui i figli e le figlie possano aspirare ad essere e ad avere accanto a sé, c’è sempre e da sempre il femminismo.
Articolo di Francesca Labonia pubblicato in “Quotidiano del Sud” del 20/03/2024, pag. 37 @cittadinanzattiva_