“Le condotte oggetto di contestazione sono, con due sole eccezioni, dimostrate anche perché sono state oggetto delle convergenti confessioni provenienti sia dal magistrato corrotto, Marco Petrini, che dai privati corruttori, ossia Santoro Emilio detto Mario, e Saraco Francesco”.
È quanto scritto nelle 156 pagine di motivazioni depositate dal giudice del rito abbreviato Vincenzo Pellegrino che a Salerno ha condannato, tra gli altri, l’ex giudice della Corte d’appello di Catanzaro Marco Petrini (4 anni e 4 mesi di reclusione), coinvolto nel processo Genesi sul giro di corruzione negli uffici giudiziari del capoluogo calabrese.
Il gup di Salerno ha accertato il giro di “soldi, vino, champagne, prestiti, favori e corruzione, regali, gamberoni, casse di vino, assegni in bianco e ancora denaro” che ha interessato per diverso tempo l’operato di Petrini. Nello stesso procedimento sono stati condannati il medico Emilio Santoro (3 anni e 2 mesi), l’avvocato Francesco Saraco (1 anno e 8 mesi, con pena sospesa). Il processo Genesi è scaturito a seguito dell’inchiesta avviata nel mese di gennaio del 2020 con 15 indagati, ritenuti di far parte di un sistema corruttivo all’interno delle aule di giustizia di Catanzaro.
“Se non altro per l’esatta comprensione della gravità della consuetudine alla corruzione di Petrìni Marco – spiega il gup – va rilevato che, sulla base degli atti depositati relativi a procedimenti e processi connessi e alle dichiarazioni dello stesso Imputato, le condotte oggetto di imputazione nel presente giudizio non sembrano avere esaurito l’azione criminale del suddetto magistrato. Va pure rimarcato in questa breve premessa che la peculiarità e la gravità che contrassegnano il delitto di corruzione in atti giudiziari rispetto agli altri delitti di corruzione discendono non soltanto dalle esigenze di imparzialità, correttezza e trasparenza di una funzione dello Stato, quella giudiziaria, ma si connettono direttamente alle istanze di terzietà che permeano e sostanziano in maniera del tutto originale il potere sotteso a tale funzione”.
“Il fenomeno corruttivo – si legge nelle motivazioni -quando vede coinvolti soggetti i cui poteri e doveri interpretativo/creativi e applicativo/di soluzione del conflitto siano viziati perché perseguono l’interesse di una parte, finisce con lo svuotare nelle sue radici più profonde non solo e non tanto la funzione ricoperta dal singolo attore, ma soprattutto il potere che questi lì rappresenta, con la dirompente conseguenza di una vera e propria delegittimazione dell’istituzione – Stato. Alla luce di questa sintetica considerazione introduttiva va inquadrata la portata dei fatti corruttivi oggetto del presente giudizio, che deve prescindere, o che non deve essere oltremodo condizionata, dalla constatazione che la corruzione del magistrato solo in un’occasione si è espressa nell’adozione di uno specifico atto giudiziario, il cui contenuto era stato concordato con i privati corruttori, mentre in tutti gli altri casi l’accordo sul mercimonio della funzione non si è tradotto in atti giudiziari concreti”.