L’ucronia (“non tempo”) è una variante del genere letterario dell’utopia (“non luogo”) che troviamo in Platone, Cicerone, s. Agostino, s. Tommaso Moro, Campanella… L’ucronia immagina, che so, che Colombo faccia naufragio e non scopra l’America: che sarebbe o non sarebbe successo?
Gli Americani, sempre tecnologici, praticano i modelli matematici. Esempio reale: che sarebbe successo se nell’Ottocento gli USA avessero scelto i trasporti fluviali invece delle ferrovie? La ricerca è ancora in corso.
Cosa sarebbe successo se al Volturno, nell’autunno del 1860, le truppe borboniche avessero sconfitto Garibaldi invece di essere Garibaldi a sconfiggere i Borbonici? Da qui prende le mosse la parte stimolante e provocatoria del libro. Ottenuto il successo militare, immaginano gli autori, Francesco II sconfigge anche i Piemontesi, e diviene re di un Regno Unito d’Italia; unito ma federale. E l’unità si fa da Sud e non da Nord.
Segue una costituzione, con sistema giudiziario ed economico e scolastico del tutto diverso da quello che, nella storia, troviamo essersi stabilito in Italia. Il lettore si svaghi ad essere d’accordo o meno su ogni singolo aspetto.
Da storico dilettante ma storico, io mi domando se e fino a che punto sia credibile che le cose del 1860 potessero andare diversamente. La risposta non è no; anche se non è sì! Vero che la battaglia del Volturno restò incerta fino all’ultimo, e se Francesco II e Ritucci non avessero inopinatamente ritirato le truppe, forse le operazioni avrebbero avuto un altro esito: ma, con buona pace delle prime 70 pagine del libro, davvero un po’ troppo alla Pino Aprile, il Regno dal 1850 era in irreversibile cachessia politica e militare, pur con qualche momento interessante di progresso economico. Ma la storia non la fa l’economia, la fa la politica. Date un’occhiata alla mia “Epitome di storia politica delle Due Sicilie”.
Ci sono però importanti precedenti di tutt’altro segno. Quando, nel 1734, Carlo di Borbone sedette sui due troni di Napoli e di Sicilia, proclamò (si legge nell’obelisco di Bitonto) che stava affermando “Italicam libertatem”, l’indipendenza d’ Italia, di cui voleva essere difensore; e anche Murat, sia pure molto tardivamente, nel 1815 dichiarò di combattere per l’Italia; Ferdinando II, salito al trono a vent’anni, venne visto da molti come il futuro sovrano italiano: Giuseppe Verdi, che studiava a Napoli, compose per lui un “Inno al re”; e, almeno fino al 1848, chi pensava a un esercito italiano, lo immaginava retto da ufficiali napoletani di scuola murattiana: Florestano e Guglielmo Pepe, Carascosa, Colletta… Venezia ribelle all’Austria si affidò al comando di Guglielmo, e una possente statua di lui accoglie i traghetti. A Venezia, mentre in Calabria non se lo fila nessuno, non essendo personaggio adatto a piagnistei o antimafia segue cena…
Ci fu dunque una storia politica e militare anche qui da noi. Una maledizione cadde sul Meridione dopo il 1850, che lo stesso Ferdinando II, e peggio suo figlio Francesco II, si estraniarono dalla politica europea e italiana; e l’esercito decadde in mano a vecchi rimbecilliti come Landi, Lanzi, Ghio; e, peggio, la stessa sparuta classe borghese liberale non seppe nemmeno trattare l’annessione con un minimo di dignità e discutendone i termini: il re si lasciò sconfiggere, i liberali si sbracarono. Da allora, con rarissime eccezioni, il Meridione fu e resta passivo, e fuori dalla storia.
Il libro è stato presentato nell’ex COMAC a cura dell’Incontro e della Proloco, con Francesco Femia anche in rappresentanza di De Marchi, Pietro Melia, Ilario Ammendolia, UN.
Ulderico Nisticò