Dopo l’uso ed abuso del termine olocausto (specie nella Giornata della memoria e manifestazioni varie), ecco che giornali e tv cominciano a pigiare a gara sul lemma esodo per l’imminente festa di Pasqua; sostantivo che abbandoneranno subito dopo per riprenderlo in estate, quando ci sarà il “grande esodo” d’Agosto, il cui riscontro alla fine delle vacanze sarà il terribile “contro esodo” con le lunghissime file d’automobili in autostrada e gli inevitabili incidenti, spesso simili a bollettini di guerra per l’elevato numero di vittime. La parola “esodo” è un grecismo religioso che indica “l’uscita”, “l’atto di andare via” ed è il titolo che i traduttori greci del Vecchio Testamento diedero al secondo libro del Pentateuco dove, come sanno anche molti cattolici, sono narrate le storie straordinarie del popolo ebraico che lascia finalmente l’Egitto, attraversa il Mar Rosso, adora il Vitello d’oro, eccetera. Oltre al significato religioso, il termine “éxodos” indicava nel teatro greco classico l’ultima parte della tragedia, che vedeva il precipitare dell’azione verso una conclusione luttuosa e tragica e che conteneva l’esodo vero e proprio, ossia il canto che accompagnava l’uscita del coro. L’uso di questo vocabolo era, dunque, molto limitato, essendo prerogativa dei pochi “addetti ai lavori”, di coloro che s’interessavano del teatro greco oppure si occupavano della materia biblica in cui, come già detto, l’esodo evocava le piaghe d’Egitto o il Sinai. L’ampliamento del termine e la sua “volgarizzazione” fu opera della cultura anglosassone, specie di quell’americana, che l’identificava con l’esperienza del movimento dei Puritani, con la sofferenza degli schiavi neri e la teoria della liberazione. “Let my people go”, l’invocazione di Mosè al Faraone perché lasciasse andare via il popolo ebraico, è diventata quasi la bandiera dei neri americani e rappresenta una metafora, come dice Armido Rizzo in “Esodo”(Arcipelago, Collana filosofia 1999), della stretta connessione tra il momento politico basato sul diritto e quello teologale della spiritualità e della fede su cui si fonda la speranza umana nel futuro che permette di superare la condizione di schiavitù. In un’interpretazione politica di Michael Walzer, l’esodo ebraico è metafora di una rivoluzione riformista e di cambiamento che vive del quotidiano, abbandonando l’idea di paradisi utopici ed attingendo ai conflitti, alle difficoltà di tutti i giorni che l’arduo cammino presenta: l’alleanza, tra Mosè ed il popolo ebraico, garantisce la partecipazione popolare alla lotta politica ed il lungo viaggio degli ebrei è visto come il raggiungimento finale della democrazia. D’esodo “biblico” si è parlato a proposito dei milioni d’Irlandesi che nel 1846/47 lasciarono il loro paese per gli USA a causa della tremenda carestia delle patate; di “exode” si parlò in Francia nel 1940 per la fuga di migliaia di persone dinanzi all’invasione tedesca e, in questi ultimi tempi, per la fuga della popolazione slava ed albanese a causa della nota guerra. Da un po’ di tempo a questa parte, tuttavia, si è perso completamente il senso storico del termine “esodo” che non significa “spostamento in massa”, bensì “emigrazione, fuga, abbandono di un paese”; questo decadimento della parola dall’uso storico al cronistico fa dire e scrivere, ad esempio, “esodo di Natale o Pasqua”, “esodo d’Agosto”, per significare che migliaia di persone affollano treni ed autostrade per andare a divertirsi, a passare le ferie al mare o in montagna o, come accade appunto nel periodo natalizio e pasquale, presso le proprie famiglie nei paesi d’origine: ciò che é il contrario di un esodo. Anche in questo caso, insomma, un dotto grecismo religioso è stato distorto ed appiattito con un uso improprio, il cui continuo abuso “stagionale” da parte di giornali e TV fa pensare che non se ne possa fare a meno, quasi fosse una “condicio sine qua non” é possibile fare andare gli italiani in vacanza.
Dopo l’Egitto, gli Ebrei ebbero una vita difficile e tormentata, sempre costretti a difenderla per mezzo delle armi, fossero mazze o spade, fucili o missili; milioni sono stati i morti provocati o subiti, sino allo spaventoso genocidio nazista che va sotto il nome di Olocausto. Questo termine, tuttavia, etimologicamente sacro e religioso proprio della divinità, non ha nulla a che vedere col significato attuale di strage, omicidio di massa o annientamento di un popolo: “hòlos” in greco significa “intero” e “kaio” vuol dire “bruciare”, quindi bruciare interamente, caratteristica dell’offerta di una vittima alla Divinità; come aggettivo sostantivato “olocausto” –ricordiamo “holocàustos”, “holocàustoma” eccetera, del periodo tardo greco-, sta ad indicare la vittima sacrificale bruciata completamente alla maniera dei sacrifici ebraici, non di quelli pagani presso i greci, i quali (saggiamente?) ne bruciavano solo una parte e il resto lo mangiavano. Fuori della Vulgata (la Bibbia latina che per decine di secoli fu il “libro dei libri” di tutti i Cristiani occidentali), il termine olocausto era usato limitatamente alle iscrizioni funebri e per i monumenti ai caduti, ai morti che si erano sacrificati per la Patria; e il nostro G. D’Annunzio con questo senso sacrificale scrisse: ”Fu detto il nome giusto della città non essere Fiume ma Olocausta, perfettamente consumata dal fuoco tutta.”(L’urna inesausta: Il primo olocausto, Discorso al popolo di Fiume, 7 ottobre 1919). Anche Dante usa tale vocabolo nel Paradiso con senso chiaramente traslato: ”Con tutto il core e con quella favella ch’é una in tutti a Dio feci olocausto…”.(Paradiso, XIV v.88). La retorica rivoluzionaria e giacobina e la propaganda mazziniana con la conseguente laicizzazione della cultura europea, portarono ad un uso diverso del termine olocausto per quella “ (…) grande smania che ha il nostro secolo di torcere a significato profano le parole spettanti a religione”, come si lamentava il purista Filippo Ugolini nel 1871; un esempio ci viene dallo stesso Vate abruzzese che scriverà qualche decina d’anni dopo: “Con un’ostia tricolore/ognun s’è comunicato”. Sino al 1983, ma chiedo il beneficio del dubbio, il termine olocausto aveva ancora e solamente il significato biblico-religioso o funerario come detto sopra (De Voto/Oli, pag. 286) e sembrava destinato all’oblio giacché, ormai da diversi anni, la Bibbia latina non usa più com’anche le patriottiche iscrizioni funerarie; poi, quasi improvvisamente, ha avuto un’impennata di popolarità ma con un significato del tutto diverso da quell’antico; olocausto non indica più l’eroe morto per la Patria ma le vittime innocenti, che sicuramente non avevano alcun’intenzione di morire, strappate dalle loro case e dai loro paesi per essere sacrificati all’odio razziale di un popolo inneggiante ad un’assurda superiorità genetica, al Terzo Reich. Quest’uso del termine, in verità, era già noto nel 1964 in riferimento ad un ipotetico “atomic holocaust”, ma solo nei primi anni Ottanta cominciò ad essere usato, per indicare lo sterminio degli Ebrei europei, dai mass media degli Usa dove, come si sa, è grandissima l’influenza ebraica su tutta l’opinione pubblica; successivamente la potente macchina del linguaggio giornalistico e televisivo americano ha esportato il nuovo significato di olocausto anche in Europa, Germania compresa, dove prima non esisteva neppure nel tradizionale significato religioso.
Adriano V. Pirillo