“Noi terroni stiamo morendo di tumore, ma non perdiamo la dignità. La mia gente per salvarsi deve curarsi al Nord”


Ospedali fatiscenti, mancanza di strutture, personale incompetente, infiltrazioni mafiose. E poi ancora, la crescita esponenziale di malati di tumore, nessuna indagine sulle possibili cause, la fuga verso il Nord per curarsi. È questa la fotografia della situazione sanitaria nel Meridione che Alice Mafrica, 31 anni, calabrese, ha denunciato in un post su Facebook, diventato ben presto popolare. Nata e cresciuta a Melito di Porto Salvo, il punto più a sud della penisola, la giovane ha lasciato la sua amata terra per andare a studiare al Nord, dove le è toccato anche curarsi, dopo aver scoperto di essersi ammalata di cancro al seno.

“A casa mia mancavano le porte, ma non la dignità – si legge nel suo post, diventato popolare in poco tempo -. ‘Studia e vatindi!’. Così ho fatto. Via, subito, università e poi lavoro e indipendenza. Intanto in Calabria gli ospedali diventavano mostri, i malati tumorali aumentavano in maniera esponenziale, il diritto alla salute veniva mortificato. Io li ho visti i miei amici, i miei vicini di casa ammalarsi e combattere. Li ho visti andare via”. Ma preparare i bagagli e curarsi al Nord non dovrebbe essere la norma; è questo che Alice chiede: il semplice diritto ad un’assistenza sanitaria pubblica e dignitosa. Perché, come afferma ad HuffPost -, “noi non perdiamo la nostra dignità. Abbiamo voglia di dire: ‘Guardateci, siamo qua! Anche noi ci meritiamo un finanziamento, anche noi ci meritiamo di fare chemioterapia a casa nostra’”.

Come e quando hai scoperto di avere un tumore al seno?

“Da Melito di Porto Salvo, punto più a sud della penisola, mi sono trasferita a Roma per studiare medicina. Mi sono laureata e ho vinto la specializzazione a Genova in ‘Anestesia, Rianimazione e Terapia Intensiva e del dolore’. Tra agosto e settembre 2017, mentre ero in vacanza dalla mia famiglia, ho notato, tramite l’autopalpazione, un nodulo al seno: subito ho iniziato a fare una serie di controlli, ecografie. Una volta accertata la presenza di un carcinoma mammario sono tornata a Genova, mi sono operata e ho iniziato i cicli di chemioterapia”.

Perché hai preferito curarti al Nord? Qual è la situazione della Calabria a livello sanitario?

“La mia è stata una scelta da una parte obbligata, perché studiavo e lavoravo lì, dall’altra anche voluta, perché, come molti altri miei conterranei, preferisco affidarmi alla qualità e alla competenza degli ospedali del nord Italia. Di esperienza, a livello di malattie in famiglia, ne ho tanta: in dieci anni ho visto mio padre ammalarsi di leucemia cronica e poi di tumore al colon, mentre mia madre è stata colpita da una forma di linfoma molto particolare, misto. Per l’intervento al colon di mio padre ci siamo rivolti a Roma, mentre per quanto riguarda l’oncoematologia siamo rimasti a Reggio Calabria perché il reparto lì è molto buono. Ma il problema è che l’ospedale è allo sbaraglio, i tempi di attesa sono lunghissimi, il bacino di utenza è troppo ampio e l’organizzazione è carente. Anche a livello di strutture, non c’è paragone con la situazione che ho trovato al Nord: non c’è aria condizionata in estate, non c’è riscaldamento, le sedie sembrano improvvisate. Quando si ha a che fare con un malato oncologico, inoltre, si dovrebbe avere più cura del normale, farlo sentire accolto: nella sala d’attesa in cui entro quando vado a fare chemioterapia a Genova ho una libreria e questa piccola attenzione mi fa sentire a casa, mi fa sentire meglio. Ho un protocollo da seguire, di farmaci da prendere per evitare gli effetti della chemio, la nausea, il vomito: mia madre, invece, non è stata seguita nell’iter post terapia e sono dovuta entrare in gioco io, informarmi, procurarle i farmaci adatti a superare gli effetti collaterali. Sono piccole cose, ma fanno la differenza”.

 In generale, quindi, è quasi una prassi curarsi al Nord?

“Per chi può permetterselo, sì. Ho parlato con molti miei conterranei in questo periodo e tanti mi hanno confermato di aver fatto la mia stessa scelta. In generale, ho notato che soprattutto per la parte chirurgica si tende ad avviarsi al Nord, dove ci si sente molto più sicuri, dove i casi di pazienti operati di quella stessa malattia sono tanti quindi si presuppone che i medici possiedano le capacità giuste per operarli. Chi rimane al Sud è chi non ha i soldi per permettersi il viaggio, chi è troppo anziano. Rimane quindi intrappolato tra liste d’attesa lunghissime e strumenti datati. A proposito di attrezzatura vecchia, conosco casi in cui qualcuno ha subito ustioni da radioterapia: la radioterapia in sé prevede il rischio di ustione, ma se il macchinario è nuovo è raro che questa si verifichi”.

Qual è il problema della sanità al Sud, secondo te?

“Il fatto è che siamo rovinati a livello economico, ma ci siamo anche rovinati da soli. I finanziamenti ricevuti trenta o quarant’anni fa sono stati gestiti molto male. Io penso che dietro a tutto questo ci sia una mancanza di cultura (il concetto che per ottenere dei buoni servizi bisogna pagare non è accettato da tutti), ma non solo: il problema è che la ‘ndrangheta è riuscita ad infilarsi dappertutto. A livello burocratico, nelle amministrazioni comunali, negli ospedali stessi. Se si assumono persone non in base alle competenze, ma in base all’essere ‘amico di un amico’, il sistema inizia a cedere. Il personale è sempre meno competente, la qualità si perde, gli ospedali si svuotano, cominciano a mancare fondi (che vengono usati per soddisfare altre esigenze), non vengono fatti gli screening. Mancano i macchinari fondamentali: basti pensare che nella mia zona ci sono tre TAC per un’area di circa 200 km. E che non c’è una PET in tutta la Calabria. La PET è fondamentale per capire la disseminazione di un tumore nel corpo: è una cosa che si deve fare, non si può prescindere. Mia madre ha dovuto farla a Messina”.

Nel tuo post denunci il fatto che al Sud ci si ammali sempre più spesso. Che idea ti sei fatta sulle possibili motivazioni?

“Nella mia sola famiglia ci sono stati quattro tumori, tutti diversi, non collegati da origine genetica. Nel mio quartiere, ogni numero civico ha almeno un parente malato di tumore. So che a Cosenza c’è una situazione simile, con una maggiore incidenza di linfomi, leucemie, malattie che sono state ricollegate dagli scienziati all’inquinamento ambientale, alle radiazioni”.

Ilaria Betti – Huntington Post


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