Il lavoro come lo concepiamo noi è una creazione del cristianesimo medioevale. Gli antichi sognavano un’eà dell’oro senza lavoro, e, con qualche eccezione (nella letteratura ellenica, quasi solo Esiodo e Senofonte), della fatica ne avevano un’idea positiva, e in greco “kamatos” vuol dire sia lavoro sia stanchezza sia malattia; i Romani lasciavano il lavoro agli schiavi; e il dio lavoratore, Efesto Vulcano, è brutto, zoppo… e sfortunato in amore.
Adamo ed Eva, nel tempo senza tempo in cui stettero nell’Eden, non facevano nulla; con la trasgressione e l’inizio della storia, furono condannati a “procurarsi il pane con il sudore”; e, superato questo momento di mera fatica, ammirarono i loro discendenti (si noti, tutti discendenti del solo Caino: e si vede!), creare il lavoro differenziato, finché, sazi del necessario, e munitisi di tecnologia (“bitume invece di fango; mattoni invece di pietre”) si diedero al massimo del lusso intellettuale della globalizzazione: la Torre di Babele. Crollata questa e iniziate le nazioni, ognuna mise mano al territorio, alla produzione e al commercio; con quel che ne consegue: navigazioni, politica, leggi, guerre…
Sorretti da questa dottrina, gli Europei dell’XI secolo, dissodate le terre in abbandono, aumentata la popolazione, abolita l’ormai inutile, anzi dannosa, servitù della gleba (la schiavitù era finita da secoli), ripopolarono le città o ne costruirono di nuove; svilupparono tecniche; batterono monete; e costruirono nuove Torri di Babele, non contro Dio ma in onore di Dio: le immani cattedrali. E Dio inviò loro non più solitari mistici e teologi, ma due santi del popolo e del lavoro: Francesco (vero film del lavoro cittadino, le Storie di Giotto), e Domenico, e per lui la dottrina del lavoro e della produzione e del commercio di san Tommaso d’Aquino. Federico II, san Francesco e Dante esaltarono la lingua di tutto il popolo contro lo scolastico latino di pochi.
Il ritorno della schiavitù si ebbe con i primordi dell’industria: schiavitù propriamente detta, quella degli Africani nelle Americhe; schiavitù legale degli operai privati dei diritti consuetudinari: una delle primissime operazioni della rivoluzione francese fu, nel 1791, abolire le corporazioni, e quindi esporre l’operaio alla ferocia della trattativa individuale; mentre l’industria inglese schiacciava anche fisicamente operai, donne, bambini condannati alla “legge bronzea dei salari”, e molto spesso a morte. Da questo orrendo quadro nacque la questione sociale, affrontata dai “socialisti utopistici”, da Marx, e, molto più concretamente, proprio dagli stessi industriali inglesi, che, con Owen, iniziarono a pagare meglio gli operai, e per placarli, e soprattutto per trasformarli da miseri affamati in consumatori. Lo sfruttamento del lavoro è proprio delle economie arretrate; mentre a quelle evolute serve e giova il contrario. Così invalsero gli attuali rapporti di lavoro, che è utile chiamare aziendale.
Aziendale è oggi la produzione, anzi anche la distribuzione. Chissà quante mani, e in quali parti del mondo, hanno operato perché io potessi, stamani, scrivere queste povere note sul computer! E tutto a base di odiato petrolio e disprezzatissima plastica: ahahahahahah. E qualcuno ha lavorato, qualcun altro ha aperto un negozio, qualcun altro ha portato il computer e alla fine io l’ho comprato; e presto lo dovrò sottoporre a revisione presso un bravo tecnico. Ecco, tutto questo è una ciclopica azienda, di cui facciamo parte anche io che scrivo, Simone che pubblica, e voi che, cortesemente, leggete.
Ecco, lasciamo gli odiatori del lavoro alla spocchia aristocratica dei miei amati Greci e Latini: che amo, però non scordo che Mecenate, Virgilio, Orazio, il fiore della cultura di tutta la storia del mondo, a lentissimi piedi andarono da Roma a Brindisi; e io, povero ignorante del 2020, ci metterei, comodo, quattro ore di macchina.
Orbene, e ad onta dei poeti antichi, la terra non produce tonnellate di frutti spontanei, ma bisogna ararla eccetera, e i frutti vanno trasformati e distribuiti eccetera, l’umanità ha un solo modo di vivere bene e onestamente, ed è la civiltà del lavoro, ovvero:
1. Intelligente produzione e distribuzione di beni e servizi;
2. E quello che l’Aquinate chiamava “iustum pretium” sia delle merci sia della prestazione d’opera.
Il lavoro del XXI secolo è molto diverso da quello del XVIII nelle miniere del Galles, ed è ad altissimo livello di tecnologia e di valore aggiunto. Occorre dunque una preparazione scolastica e universitaria adeguata.
Per lo stesso motivo, va ripensata anche l’organizzazione del lavoro, a cominciare dagli orari e dagli stessi luoghi.
E occorre una politica che indirizzi la produzione.
E occorre una politica che NON crei “posti di lavoro” (per capirci, la Calabria anni 1970 con ospedali da pochi medici e tantissimi guardarobieri), ma consenta all’economia di vivere, e quindi di avere bisogno di operatori.
Comunque, virus a parte, buon Primo maggio, o Calendimaggio che dir si voglia.
Ah, quasi dimenticavo: un tempo, un tempo!, la patria del lavoro per eccellenza era Soverato, e lo documenta una Mostra, che, appena sarà possibile, renderemo permanente al Comune; nella foto, la fabbrica del Quarzo (1937), e lo spettacolo che le abbiamo dedicato.
Ulderico Nisticò