Ognuno ha i suoi punti di vista, e non trovo nulla di male che il Convegno di Squillace, promosso com’è da archeologhi e architetti, sia stato a tema di monachesimo e di cenobi e altri edifici sacri. Il mio, per altro modestissimo, punto di vista è di chiedermi cosa succedesse in Calabria (nel frattempo chiamata così) mentre tutti quei monaci pregavano nei loro eremi. Si tratta di un periodo che va dal 553 (fine della Guerra gotica) al 1060 (conquista normanna di Reggio); e che, sotto l’aspetto culturale, si spegne solo nel XV secolo.
Si spegne in quanto consapevolezza, mentre tuttora, ogni volta che parliamo dialetto, e ogni volta che veneriamo un santo, il mondo bizantino non è affatto finito. Dico bizantino per capirci, ma io preferisco romeo (dell’Impero Romano d’Oriente, Ῥωμαῖοι).
Nel 568 i Longobardi invadono l’Italia, ma non la conquistano interamente; i Romei, tra l’altro, mantengono territori a Otranto e a sud del Crati; che estenderanno, nel X secolo, da Puglia e Basilicata all’intera Calabria.
A tale situazione politica fa seguito una parziale riellenizzazione, con il passaggio, dal 732, delle Diocesi a Costantinopoli; e, sotto Nicerofo II Foca (961-9), con l’organizzazione della difesa attraverso “kastellia”, i paesi posti sui colli, e presidiati da “valenti” (ἄνδρες ἀγαθοί) contadini soldati venuti da ogni luogo dell’Impero; e, dal cielo, da santi greci.
Fondamentale è ribadire che nell’Impero Romeo non è concepibile alcuna distinzione tra Stato e Chiesa; e che le strutture ecclesiastiche secolari sono parti integranti dell’Impero. Non è così per i monaci eremiti, lauriti e cenobiti, che si considerano autonomi, e sono spesso in contrasto con i vescovi; finché san Nilo non darà inizio al passaggio del monachesimo greco all’obbedienza romana, e alla separazione delle sorti dei cenobi da quelle dell’Impero.
La Calabria è organizzata come thema del catepanato d’Italia; e in due metropolie ecclesiastiche: Reggio e S. Severina.
Il governo romeo affronta, con tutte le immaginabili difficoltà, le frequenti incursioni dei Saraceni (Agareni), che compiranno saccheggi, ma non riusciranno negli intenti di conquista. Intanto papa Leone IV e il re imperatore Berengario I, assieme ai Principati longobardi, ottengono significative vittorie sui Saraceni, per mare a Ostia e contro il campo trincerato del Garigliano.
Con la battaglia di Civitate del 1053, e la sconfitta di Leone IX seguita da accordo, i Normanni divengono italiani, anzi più italiani degli altri, e s’impegnano a riconquistare la Sicilia araba e a restituire a Roma le diocesi meridionali. Perso ogni carattere politico, la grecità vivrà rispettata per altri secoli.
Tuttora veneriamo la Madonna Acheropita, la Madonna di Costantinopoli, i santi Agazio, Anastasia (Anastasìa, quando si parla della Patrona), Andrea, Barbara (Vàrvara e Varvàra), Caterina Martire, Cosimo e Damiano, Costantino, Foca, Giorgio, Gregorio Taumaturgo, Leone, Nicola, Nicodemo, Pantaleone, Sostene, Teodoro… E ancora i bimbi si battezzano con questi nomi, resistendo alle mode.
Moltissimi Comuni hanno nomi greci; e tanto più i luoghi più conservatori, quelli degli appezzamenti di campagna, che si chiamano Bambacati e Caresta e Nerca e tanti altri modi spesso divenuti incomprensibili anche all’etimologista più attento.
E veniamo alla forte presenza della lingua greca nel dialetto calabrese. Si calcola che il 20% dei termini sia di origine greca; e, come accennavo, molto di più nella toponomastica. Non contano però le parole, quanto la sintassi, che è con evidenza neogreca: “vojjiu mu (ma/u) vajiu”; “si nannu campava, dicìa”; “eu dissa”, riferito anche al presente…
Parole ne usiamo: “argagnu, argasia, càntaru, khalona, rema, sporia, stracu, strumbu… “. Qualche reminiscenza di greco classico venne riscontrata dal Rolhfs, ma il colorito del dialetto calabrese meridionale è palesemente neogreco. Quanto alla toponomastica, pochi sono i luoghi che mantengono il nome antichissimo: Crotone (Cotrone) e Reggio, e forse (Santa) Severina; Locri si chiama così solo dal 1934; Sibari è un recupero recentissimo.
Con tutto il rispetto per i monaci, dunque, sono una storia molto più complessa e duratura, i seicento anni di appartenenza della Calabria all’Impero Romano d’Oriente, e i mille anni di cultura e lingua romee. Non sarebbe il caso di prenderne atto?
Ulderico Nisticò