Mafia e criminalità sono argomento di discussioni quotidiane, anche su giornali e tv, che ci accompagnano a colazione, pranzo e cena; insomma, se ne parla a destra e a sinistra e si organizzano manifestazioni d’ogni genere per contrastare in qualche modo questo triste fenomeno che imperversa al sud come al nord da oltre 150 anni, ossia dalla “piemontesizzazione” dell’Italia meridionale, dalla Sicilia all’Abruzzo. Sembra, secondo Napoleone Colajanni (1847-1921), siciliano, uno degli uomini politici più in vista dell’età umbertina, nonché tra i fondatori del Partito Repubblicano, che “… la voce mafia non si trovi registrata nella prima edizione (1838) del Dizionario siciliano–italiano del Mortillaro, e ritiene che la parola sia di data recente, rilevando con compiacenza che nella 3° edizione (1876) a pag. 648 venga registrata, della parola mafia, la seguente spiegazione: Voce piemontese introdotta nel resto d’Italia ch’equivale a camorra”. Tutti, o almeno la stragrande maggioranza dei cittadini, sono ovviamente vigili a condannare questa piaga che si è incuneata nel tessuto sociale italiano, ed è un fatto che al Nord ci ritengono, a noi meridionali, tutti potenzialmente mafiosi e “geneticamente” portati a delinquere, come testimoniano ampiamente quanto in modo becero le teorie pseudo scientifiche del Lombroso, il medico scienziato al servizio di piemontesi e garibaldini durante la sanguinosa invasione e conquista del regno delle Due Sicilie. In realtà, se la Mafia ha potuto acquisire il potere che ha in posti anche istituzionali, nella finanza e nell’economia del Paese nonché in ogni branchia pubblica e privata della società, questo è avvenuto grazie proprio all’invasione piemontese e garibaldina cui ha reso servizi non indifferenti per l’abbattimento del legittimo governo borbonico e l’annessione di oltre sei milioni di abitanti e di enormi ricchezze al piccolo Stato piemontese ormai sul baratro del default. Il tanto discusso e discutibile patto tra stato e mafia del 1993 non fu che un déjà vue se è vero, com’è vero, che già qualche tempo prima dello sbarco dei “Mille” in Sicilia, emissari del governo piemontese avevano “preparato” la strada dell’invasione prendendo accordi appunto con la criminalità locale, quella che poi sarà la “Mafia”. La partecipazione –ha scritto sul “Corriere della Sera” Paolo Mieli il 2 ottobre 2012- all’impresa di Garibaldi di “uomini primitivi, selvaggi, violenti”, inviati dall’aristocrazia terriera siciliana a dare man forte al generale nizzardo, non era del resto una novità perché già nel 1848 imperversarono le squadre armate contadine, indocili strumenti dei proprietari terrieri, e i gruppi di “facinorosi sempre pronti a battersi contro le forze dell’ordine”. In quell’anno, i borbonici “soccombono a un miscuglio micidiale di iniziativa politica e pressione sociale, che si esprime attraverso la guerriglia contro le truppe reali, le incursioni nelle città fedeli a Napoli, gli attacchi ai posti di polizia e il massacro dei poliziotti, il saccheggio di uffici pubblici e abitazioni private, il rapimento degli avversari politici e dei ricchi”. “La Mafia – scrisse ancora Napoleone Colajanni – rese i più grandi servizi alla causa della rivoluzione contro i Borbone; e in questo addentellato politico sta una delle cause del rispetto e della devozione della medesima verso l’aristocrazia, che in massa era avversa ai Borbone. I più noti mafiosi furono di più valorosi combattenti nelle cosiddette squadre nel 1848; gli stessi Mafiosi si batterono prodemente nel 1860 tra i picciotti di Garibaldi alle porte di Palermo e dentro Palermo”. La discesa di Garibaldi praticamente fu il battesimo del fuoco per la Mafia che assurse agli allori del patriottismo più eclatante e populista nel momento in cui per la Sicilia e l’ex Regno borbonico iniziava una nuova vita, potendo vantare essa Mafia di avere versato il sangue in difesa della libertà. D’altra parte, Piemontesi e garibaldini non potevano certo fare gli schizzinosi nello scegliersi complici ed alleati, visto che il Regno di Sardegna era infestato letteralmente da gente di malaffare, ladri ed assassini che spadroneggiavano in lungo ed in largo e –stando alla cronaca di allora- con una longa manus di connivenza che arrivava tra le stesse forze dell’ordine, della polizia in particolare. Luigi Carlo Farini (politico e medico, 22 ottobre 1812- 1° agosto 1866) riportò su “Il Piemonte”, 20 dic. 1855, la seguente statistica criminale per soli 10 mesi del 1854: 114 omicidi, 607 aggressioni a mano armata, 4.306 furti, 995 risse e feriti, 138 incendi dolosi; in quello stesso anno 1855, ci furono 24 condanne a morte e 55 condanne ai lavori forzati a vita, oltre a condanne varie cosiddette “a tempo” (fonte, “Come si rubava nel Regno d’Italia”, Borri Felice, libraio editore, Torino 1872). A questo punto si capisce come i nuovi invasori si siano ben trovati tra le “squadre” mafiose al soldo dell’aristocrazia agraria siciliana che in effetti già molti mesi prima dello sbarco garibaldino a Marsala erano diventate l’unica autorità sul territorio. Squadre che, come ha scritto Giuseppe Giarrizzo, “sono il veicolo dell’ingresso della criminalità organizzata (abigeato, sequestro di persona, contrabbando) nell’area politica, attraverso la promozione a “patrioti” dei capibanda ”. Di malandrini si parla addirittura in un documento ufficiale, ossia in un rapporto del 25 aprile 1865, firmato dal prefetto di Palermo, Filippo Antonio Gualterio (Orvieto 1818 – Roma 1874) che citò la spedizione dei Mille: “I garibaldini nel 1860 ebbero la necessità di avere legami con quest’associazione malandrinesca”. Molto esplicito fu pure il duca Gabriele Colonna di Cesarò, che alla commissione d’inchiesta sulle condizioni agrarie della Sicilia dichiarò: “Credo che la mafia sia un’eredità del liberalismo. Naturale che quando si doveva fare una rivoluzione non si badasse tanto per il sottile alle fedi di perquisizione di coloro cui si ricorreva. Per me qui sta l’origine della mafia”. I mafiosi, dunque, vengono non dalla “tirannia” borbonica bensì dalla rivoluzione piemontese-garibaldina se è vero, come sostiene ancora il duca di Cesarò, che “…andando a guardare quali sono i mafiosi più reputati, non si trovano nome per nome che i Licata, i Cusumano, i Di Cristina (…) e insomma precisamente quelli che erano i più fedeli e devoti alla parte intelligente…”, ovvero all’aristocrazia liberale. Per finire, lo stesso avvocato Liborio Romano, già suddito borbone passato ai piemontesi (un trasformista politico ante litteram) e nominato prima prefetto di polizia e dopo appena tre settimane ministro dell’interno, divenendo una sorta di utile idiota nelle mani di Cavour per fare cadere più agevolmente Napoli, capitale del Regno, arruolò mafiosi e camorristi nella pubblica sicurezza in sostituzione di poliziotti e funzionari fedeli al passato governo; contemporaneamente ai poliziotti, il prodromo dei nostri attuali voltagabbana licenziò anche magistrati e guardie urbane, assieme all’intero apparato burocratico di uffici pubblici e ministeri, mettendo ai loro posti gentaglia della stessa risma malandrinesca. Come già detto all’inizio, caro lettori, convegni e manifestazioni antimafia non mancano e vi si coinvolgono, giustamente, anche studenti e addirittura scolari; non mi pare, però, che qualcuno –oltre a fare le solite quanto giuste accuse ad un’organizzazione che spesso stravolge la vita sociale e politica della città- ne abbia mai spiegato l’origine, la crescita e l’appartenenza socio-politico-culturale; mi riferisco, soprattutto, a quanti vengono a pontificare dal centro e dal nord accollando solo a noi una responsabilità che ha ben altri padrini e fautori.
Adriano V. Pirillo