Le statistiche sono come la pelle del collo: un giorno leggiamo che l’età media va verso i 90 anni; e un altro giorno che stiamo morendo nella culla.
Quando ero ragazzino io, io e non i dinosauri, se uno arriva a 60 anni veniva guardato con invidia; a 70, con stupore; ad 80, miracolo. C’erano poi delle eccezioni, e la mia quadrisnonna visse 104 anni: ma, appunto, eccezioni. Non solo, ma, a qualsiasi età, la persone erano acciaccate e malate, con scarsi rimedi.
Oggi l’aspettativa di vita è altissima in tutti i Paesi occidentali; e non se la passano male nemmeno in Africa, se nel 1935, quando l’Italia conquistò l’Abissinia, questa contava sette milioni di abitanti e veniva considerata popolatissima rispetto a Sudan, Uganda… e oggi ne conta cento milioni. L’Africa, terra non molto fortunata, è arrivata a un miliardo di abitanti, in crescita. L’India da sola, va verso i due.
Ciò non succede perché si nasca di più, anzi il contrario, ma proprio perché non si muore. Nel passato, bastava un’epidemia… e mica di peste nera o colera o vaiolo, bastava un’influenza come l’asiatica del 1919, che causò più morti in Europa della guerra 1914-18.
Mi spiace dirlo agli spaventati della vita, ma è merito dell’odiatissimo progresso tecnologico; merito delle condannatissime e criticatissime industrie farmaceutiche; merito della ricerca scientifica.
Ed è merito – udite udite – della produzione di cibo, che non solo è immensamente più abbondante dei secoli che furono, ma infinitamente più pulito e igienico e salubre di quando il grano veniva conservato assieme a cacche di topi e relativi gatti.
Il grano, si fa per dire: prima della mussoliniana Battaglia del grano, la produzione italiana media per ettaro era di quintali 03; e vi faccio una rivelazione: per aumentarla, usarono i concimi chimici; cosa che avviene tuttora. Con il campicello dei poeti si crepa di fame, e le Georgiche di Virgilio descrivono un praedium di almeno un centinaio di ettari di agricoltura integrata con allevamento, api eccetera.
Quando a “com’era verde la mia valle”, fino al suddetto periodo ducesco, mezzo Lazio era palude, e così gran parte delle coste meridionali; per non dire di Sant’Eufemia, che è un paradiso di agricoltura… dal 1936!
Insomma, ai bei tempi della “natura incontaminata”, la gente moriva appena nata o infante o presto; e chi sopravviveva, era un sopravvissuto, statisticamente irrilevante. Morivano come le mosche… ma no, le mosche campavano benissimo, avendo a disposizione quanti letamai volevano, a cielo aperto.
Attenzione a non capire male: io non sono mica un progressista, ma un modernista reazionario. Per questo mi servono le automobili, i computer, il cellulare eccetera; senza le quali diavolerie non potrei fare nemmeno un decimo delle cose che – bene o male ma tante – faccio.
Che poi si debba badare all’ambiente, è ovvio. Quando iniziò l’industria, Londra divenne una cappa di fumo grigio, detto appunto fumo di Londra; e le farfalle colorate vennero mangiate dagli uccelli, mentre quelle nere se la cavarono. Poi misero i filtri ai comignoli, anzi delocalizzarono le fabbriche, e le farfalle colorate tornarono con tutto il loro comodo. Oggi Londra è una città dall’aria pulita.
Quando ero fanciullo, si scoprì che un’utilitaria consumava, da Roma a Milano, più aria di un uomo in tutta la sua vita. Poi migliorarono i motori.
La soluzione dei problemi del progresso non è il regresso, ma un ulteriore progresso; e i guai della tecnologia non li risolve l’eremitaggio, ma la tecnologia.
Tutto si può migliorare, se i problemi si affrontano con intelligenza e coraggio e spirito d’iniziativa; con i piagnistei e le depressione e l’antiumanesimo, non si va da nessuna parte… tranne che sulle prime pagine dei giornali.
Un corollario fondamentale: una delle cause più profonde della disperazione del Meridione è proprio l’arretratezza tecnologica, causata da manie come “mio nonno era barone”, quindi non mi serve progredire. Avete capito? Al Sud serve una rivoluzione di progresso obbligatorio, come fece il Giappone ai tempi di Mutshuito detto poi Meji. Ve lo racconto un’altra volta.
Ulderico Nisticò