Sul biglietto di convocazione per la seduta del Gran Consiglio del fascismo, iniziata il pomeriggio caldissimo di sabato 24 e proseguita sino alle due del mattino di domenica 25 luglio 1943, c’era una prescrizione che imponeva: ”Divisa fascista, sahariana nera” e in basso il motto di tempi migliori, “vincere”; una nota di comicità che continuerà in ogni storia italiana.
All’indomani di quella drammatica seduta, con Mussolini divorato da una dolorosa ulcera, ci fu il primo “ribaltone” politico subito da un governo, presto seguito da quello delle classi dirigenti ed intellettuali (oltre che dai semplici cittadini) che l’Italia ricorda: il day after vide, infatti, tutti gli Italiani (o quasi) ferocemente antifascisti, che si accorsero finalmente di essere stati vittime del Duce, di averlo cioè seguito e plaudito quasi soggiogati dalle sue idee e dal fluente e coinvolgente verbo di Piazza Venezia. “Ducunt volentem fata, nolentem trahunt”, desumiamo dalle Epistole a Lucilio di Seneca (107,11); ovverosia, i nostri intellettuali e uomini politici furono sì fascisti e fautori delle leggi razziali ma, poverini, contro la loro volontà, trascinati (non guidati) dall’ineluttabile Fato. Insomma il loro saluto romano fu un errore di gioventù, fu dovuto appunto al Fato tiranno che rende succube la coscienza, incapaci a reagire, vigliacchi. Così, alla caduta del fascismo, si assistette ad una sorta di “dopo Saddam”, con la stessa popolazione che, osannante il giorno prima il feroce dittatore, alla sua sconfitta ne abbatteva i simulacri, bruciava i ritratti, distruggeva le sue opere e monumenti in un parossismo d’odio e rancore improvvisi. La lista di politici ed intellettuali, oggi garbatamente o ferocemente a sinistra, è nota da tempo, anche se tutti hanno fatto di tutto per mantenere nascosta la propria appartenenza littoriale. Esistono documenti (lettere, suppliche, fotografie) di noti filosofi, politici, giornalisti, scrittori, comici insigniti del Premio Nobel, che attestano il loro trascorso fascista e nella Repubblica di Salò. Alcuni di loro, messi con le spalle al muro e non potendo più negare, affermarono di averlo fatto per “sopravvivere”; ma non mancò neppure qualche vincitore (per questo inserito nell’Antologia dei poeti fascisti) del premio Poeti del Tempo di Mussolini. In via generale non ci fu alcuna costrizione sugli intellettuali; le giustificazioni a posteriori del loro comportamento sono quasi tutte false. Il fatto è che l’ascesa di Mussolini incontrò un favore culturale come non accadrà mai più in Italia, altro che “vittime inconsapevoli o costrette”. Alle più note riviste fasciste, collaborarono uomini famosi oggi per le loro critiche ed il loro sperticato antifascismo: Eugenio Scalfari (Roma fascista), Jader Jacobelli (Civiltà fascista), Enzo Biagi (L’Assalto), eccetera. D’altronde, è risaputo che, tra gli oltre mille docenti universitari che giurarono fedeltà al regime fascista, solo 12 (se non sbaglio) preferirono non barattare la libertà e le idee con la cattedra, ossia la “pagnotta” sicura. E’ vero d’altra parte che le opinioni cambiano e che ognuno ha il diritto-dovere di ravvedersi e non persistere nell’errore; ma perché coprire il passato con un silenzio durato decine di anni? Gli uomini (è giusto?), hanno pensieri ed opinioni mutevoli al pari delle stagioni e, anche se intellettuali (o proprio per questo?), non sono sempre disposti al martirio, non sono sempre portati alla coerenza, non sono sempre in condizione di fare la scelta giusta. Perché allora considerarli tutti illibati democratici e liberali, perché portare in gloria ogni loro azione (a volte immeritevolmente), perché non ammettere che spesso è stata la mera sorte a farli trovare dalla parte “giusta”?
Alle 22.40 di quell’afosissimo sabato (tutta l’Italia aveva passato la giornata al mare, ignara praticamente che si stava decidendo la sorte dell’intero Paese), fu firmato il documento Grandi a larga maggioranza (19 sì, 7 no, 2 astenuti) che sanciva la caduta del Fascismo. I gerarchi fedeli al Duce speravano ch’egli facesse arrestare i traditori, ma Mussolini confidava –ingenuamente- nella protezione del Re il quale, pochi giorni prima, gli aveva assicurato “di guardargli le spalle e di difenderlo”. Al contrario, con una sorta d’operazione tragicomica, il re, che aveva già deciso di mettere Badoglio a capo del nuovo governo, quello stesso 25 luglio fece sequestrare ed arrestare il Duce a bordo di un’autoambulanza. Mussolini non aveva capito che il Re non aveva alcuna fiducia in lui e neppure nel popolo italiano, fascista nella quasi totalità sino al 24 Luglio 1943 e sinistramente antifascista il 25. Nelle “reali” considerazioni, gli Italiani erano un popolo cortigiano, ossequioso del potere e della forza, ma caratterialmente vile e facile a cambiare casacca alla vista dell’ex potente nella polvere. “Sono buffi gli Italiani, era solito affermare il re; pretendono di essere salvati e dimenticano che un popolo se ha fede in se stesso si salva da solo”. Aveva tutti i torti? Di certo, in quelle afose giornate di luglio 1943, gli Italiani neppure immaginavano quello che stava succedendo nella Sala del Pappagallo di Palazzo Venezia alle ore 17.00 (la seduta iniziò con largo anticipo) di quel drammatico sabato: erano tranquillamente al mare e della caduta del regime furono informati solo la domenica successiva. Al contrario furono abilissimi a rifarsi una faccia nuova, a costruirsi un’anima sinceramente antifascista e a decapitare statue e ritratti di chi, sino a qualche ora prima, avevano pregato, ossequiato, osannato. Molti di costoro fecero la Resistenza, si iscrissero nel Partito Comunista, divennero magistrati, onorevoli, direttori dell’Unità, segretari della D.C.; ebbero premi letterari e persino un Premio Nobel, sempre nascondendo e difendendo con le unghie e con i denti i loro segreti, la loro militanza fascista, l’adesione alla RSI, l’aver scritto e pubblicato opere inneggianti al fascio littorio, alle leggi razziali, al saluto romano. Quando la verità è venuta a galla, almeno in parte, le loro giustificazioni sono state semplicemente sconcertanti: vittime, loro malgrado, costretti alla bisogna per incapacità critica, perché dovevano pur vivere, perché faceva comodo una cattedra all’università. I “Canguri Giganti” (come li definì Mussolini dopo il fatidico 25 luglio), esistono anche oggi e non esitano, di tanto in tanto, a saltare il fosso.
Adriano V. Pirillo