L’ignoranza é qualcosa di terribile per gli uomini e causa di numerosi guai; essa incombe come una specie di tenebra sulle azioni umane, oscura la verità e copre la vita d’ognuno come un’ombra. Tutti, quindi, sembriamo dei viandanti nel buio, o meglio ci comportiamo allo stesso modo dei ciechi: inciampiamo casualmente in qualcosa, oltrepassiamo qualcos’altro inopportunamente, né vediamo quel che è vicino e dinanzi ai piedi mentre nutriamo timore per ciò che è avanti e assai lontano quasi dovesse darci noia; e, in generale, in ogni nostra azione corriamo sempre il rischio di ruzzolare. E proprio questo è stato motivo per gli autori tragici di molti spunti per le loro opere, i Labdacidi, i Pelopidi e altri fatti simili a questi. Si può sostenere che la maggior parte delle disgrazie che vanno in scena avviene sotto la regia dell’ignoranza, a guisa di una sorta di demone tragico. E affermo ciò in considerazione anche di altri aspetti, in particolar modo le calunnie infondate contro gli intimi e le persone care; a causa di esse ci sono state famiglie distrutte, paesi rovinati da un capo all’altro, padri impazziti contro i figli, fratelli contro fratelli e figli contro genitori e amanti contro amati. Per aver prestato fede a false accuse anche non poche amicizie sono state spezzate e giuramenti infranti. Così afferma lo scrittore greco Luciano di Samosata (il brano è stato dato alla maturità classica di giugno 2014), ma é proprio vero tutto il male che l’autore dice dell’ignoranza? Vediamo un po’ cosa pensano altri noti pensatori. Lo scrittore latino Valerio Massimo scrive che l’insigne oratore e filosofo Marco Tullio Cicerone, ormai avanti negli anni e nei dispiaceri, arrivasse ad odiare la cultura perché causa principale dei suoi guai e patimenti. Altri studiosi antichi sostengono che le lettere sono una sorta di peste pubblica o un veleno. Nelle sacre scritture si legge che la scienza accresce il dolore; addirittura il profeta Davide sostiene che la sua ignoranza delle lettere gli farà godere le grandezze di Dio e partecipare la sua giustizia. E non è forse vero che tutte le eresie sono nate nel cervello dei dotti? Grandi ingegni come Galilei, Cartesio, Campanella, Giordano Bruno, non avrebbero subito mille tormenti fisici e morali, non sarebbero stati perseguitati e condannati, se non avessero cercato di mostrare e dare alla società in cui vissero, ben lungi dal loro troppo dotto sapere, e gelosa della popolare beata ignoranza, ciò che non desiderava e che portava solamente dannosi cambiamenti epocali. Al contrario, i più semplici e ignoranti cittadini sono sempre stati esempi d’onestà e virtù; pur essendo privi di concetti matematici e metafisici, sono stati modelli di santità e di fede.
In molte zone d’Italia, ad esempio nel lucchese di qualche secolo fa, nell’amministrazione della giustizia si rifiutavano i “dottori” perché si temeva che, col loro sapere d’uomini di lettere, potessero sconvolgere la società e pervertire l’ordine costituito. Fuori dei loro libri, infatti, i letterati apparivano goffi ed inetti, e molte nazioni prive di filosofi o giuristi di fama erano governate meglio delle altre. Neanche nell’arte militare, l’ignoranza delle lettere e della filosofia fu d’impedimento a grandi condottieri del passato: erano forse dei dotti, Ettore, Achille, Alessandro Magno, Annibale, Scipione? Investigare le cose alte, porta ad inorgoglirsi inutilmente perché dinanzi alla potenza di Dio è soltanto stolta superbia. E siamo poi sicuri che tutti questi capovolgimenti e sfide scientifiche, queste manipolazioni genetiche, questi tentativi di duplicare o addirittura “creare” la vita, in pratica questo orgoglioso ergersi verso la deità, alla fine non procuri più danni che vantaggi all’umanità? Noi riteniamo che, per una vita beata, sia meglio essere timorosi e non farci gonfiare dalla scienza che porta al male. Come affermò Platone, fu uno spirito maligno di nome Teuda ad inventare la scienza; di conseguenza, chi coltiva troppo le lettere e gli studi in genere diventa melanconico, maligno, invidioso, divorato dalla bile nera per i successi degli altri. Di qui la smania di apparire, di prevalere a discapito del prossimo, di vendicarsi, seppure incruentamente, con satire feroci, con sermoni o scritti bestiali e crudeli.
In verità, se le lettere fossero state cose buone, sarebbero state oggetto di una caccia feroce da parte di principi e re -i nostri ultimi di Casa Savoia le hanno sempre ignorate- i quali invece bramavano ben altro dai loro sudditi. Non si è mai sentito che uomini liberi e schiavi, vassalli e signorotti, siano stati spogliati dei loro studi, conoscenze, lettere e cultura: sì, invece, di terre, oro e perfino del loro sangue. Se fosse stato un ignorante, Socrate non sarebbe stato condannato a morte e costretto a bere la cicuta. E’ preferibile, dunque, essere ignoranti piuttosto che dotti, odiare le lettere anziché amarle; si sta, del resto, in più larga ed onesta compagnia, più allegri e sicuri di non essere oggetto d’invidia e rancori. Da questo punto di vista, possiamo stare sicuri per la maggior parte dei giovani d’oggi che, saggiamente tenendosi ai margini della cultura, non correranno rischi e pericoli inevitabili per gli uomini dotti. Studi mediocri e un sapere appena sufficiente per trovare un posto di lavoro, renderanno la loro vita tranquilla, scevra d’insidie politiche e sociali, che presto o tardi li porterebbero ad affrontare difficoltà e pericoli. Quando non si sa nulla, non si desta l’odio di nessuno, non si hanno nemici, non si hanno paure e timori ma solo sentimenti felici, figli di beata ignoranza, che allontana dolori e sofferenze. Se Socrate avesse fatto tesoro del suo detto più saggio, “En oida oti oyden oida”, sicuramente non sarebbe andato incontro ad un processo infamante con un’accusa gravissima (corruzione della gioventù ed introduzione di falsi dei), conclusosi con una condanna a morte per avvelenamento.
Adriano V. Pirillo