Di Olocausto e stragi di Ebrei, di “soluzione finale”, si parla ormai ovunque, a proposito ed a sproposito, ma pochi conoscono la storia dei “Lebensborn”, ossia dei circa 20.000 bambini che avrebbero dovuto costituire le premesse della perfetta e pura razza ariana. Questo progetto nacque nel 1935 nella mente del braccio destro di Hitler, Heinrich Himmler, che per compiacere le teorie del dittatore sulla superiorità della razza ariana, organizzò una sorta di “fabbrica di bambini” favorendo incontri sessuali ad hoc tra soldati tedeschi e donne nordicheggianti, bionde e con gli occhi azzurri.
La maggior parte di queste donne erano mogli consenzienti di militari tedeschi ma non erano in numero sufficiente per creare la nuova razza iperborea e quindi il regime organizzò rapimenti di bambini “ariani” soprattutto in Polonia per darli poi in adozione a famiglie tedesche “pure”. Dopo lo scoppio della guerra, il progetto Lebensborn fece un salto di “qualità”, con la creazione di centri e “case di maternità” dove si favoriva la nascita, la crescita e l’educazione dei bambini di pura razza ariana. I primi Lebensborn (“Sorgente di Vita”), nacquero dunque in Germania ma ben presto si estesero in gran parte dei territori occupati dalle truppe tedesche, specialmente in Norvegia, considerato da Hitler il Paese degli “antenati”. Così, in cinque anni d’occupazione (1940/1945), le donne norvegesi diedero ad Hitler tra i dieci e i dodicimila “figli” di razza ariana, su per giù la metà di quelli generati in tutti gli altri paesi occupati dalle truppe del Furher.
Molti di questi bambini vennero dati in adozione a famiglie di provata fede nazista, altri furono fatti crescere lì fino alla fine della guerra, gestiti e finanziati direttamente dalle SS, ai quali i dirigenti dovevano rispondere. Quando ci si rese conto che la guerra era ormai persa, si fece in modo di cancellare ogni traccia e documento che potesse fare risalire i bambini alle loro famiglie di origine. Il destino dei “figli di Hitler” fu quindi diverso e i più fortunati furono quelli rimasti nelle famiglie adottive senza aver mai conosciuto la verità.
Quanti, che poi fu la stragrande maggioranza, furono restituiti alle madri o affidati ad orfanotrofi, subirono una sorte drammatica, assieme alle loro madri, additate al pubblico ludibrio, specialmente in Norvegia, dove furono lasciati in balia dell’odio popolare e delle stesse istituzioni, stampa compresa, che suscitarono contro di loro vere campagne legalizzate d’odio e disprezzo, i cui strascichi durano ancora oggi e cronache recenti (tra cui un libro, “I figli di Hitler”, Boroli ed. Milano) affermano che esistono tuttora problemi d’eredità, di cultura e di cittadinanza. Nessuno, sia a livello politico che civile, prese le difese di quelle che furono definite le “puttane del crucco”; nessuna associazione femminile o ente umanitario tentò di capire la situazione e la risposta del mondo democratico all’orrore del progetto hitleriano contrappose una linea argomentativa assai simile e comunque non molto diversa da quella usata dai nazisti in nome della razza. La democrazia occidentale, insomma, quella che aveva combattuto inorridita il nazifascismo, a guerra finita considerò le donne scandinave (soprattutto norvegesi) colpevoli di avere avuto legami con soldati tedeschi durante l’occupazione nazista, come una sorta di paria e per questo non più degne di rimanere nel proprio paese. Da qui la “denazionalizzazione” di quelle poverette e dei loro figli, vittime di una campagna d’odio che in Norvegia raggiunse punte parossistiche, al punto da subire deportazione ed arresti. Inserite, anzi, in novelle liste di proscrizione, quali “traditrici della Patria”, subirono ogni sorta di violenza fisica e morale: dall’abbandono della famiglia alla perdita del posto di lavoro.
E questo con la connivenza del governo norvegese che non solo non fece assolutamente nulla per proteggerle ma lasciò che (maggio del 1945) fossero arrestate a migliaia (nella sola Oslo furono più di mille) e quindi rinchiuse in campi di concentramento e di smistamento. Non contento di questo, e forte di un sondaggio popolare in cui tre cittadini su quattro si dichiararono a favore di una punizione di queste donne, nell’agosto dello stesso anno l’esecutivo norvegese approvò una legge retroattiva secondo la quale ogni donna che risultasse sposata nei cinque anni precedenti con un nemico tedesco, sarebbe stata privata immediatamente della cittadinanza.
C’è da dire subito che la stampa si schierò apertamente col governo, sino a scrivere che era giusto perseguire madri e figli perché “tutti questi bambini tedeschi cresceranno e costituiranno una larga minoranza bastarda all’interno del nostro popolo”, essendo figli di padri tedeschi e di madri che lo sono diventate per mentalità. Quella sorta di delirio nazional-popolare, andò fortunatamente calmandosi negli anni della “guerra fredda”, quando ad ogni donna privata della cittadinanza fu permesso di rientrare in patria, ma ad una condizione: firmare un documento in cui si accettava che “l’opinione pubblica era contro di lei, che ci sarebbero state difficoltà e situazioni spiacevoli per lei e i suoi figli, che all’occorrenza avrebbe potuto essere internata, che si trattava di un soggiorno temporaneo”. Le “puttane di Hitler” tornarono dunque in patria ma attraverso la porta di servizio, rimanendo avvolte da silenzi e reticenze, dal buio della storia, per quasi sessanta anni. Per loro, ancora oggi, c’è solo il disprezzo di una nazione ritenuta tra le più democratiche ed “aperte” del mondo, che continua a tenerle inchiodate al passato, non considerandole in pratica neppure più donne.
Adriano V. Pirillo