La scuola e la lingua italiana


scuola2 In margine all’interessante convegno del Soroptimist e alla lezione del prof. Sabatini sulla lingua e la scuola, vanno colte due provocazioni, sulle quali intervengo. Durante i lavori, non c’era tutto questo tempo per un dibattito; e dovevamo accompagnare gli ospiti a visitare il Duomo con la Pietà del Gagini. Io vedo così la questione:

  • La presa di coscienza del volgare italiano avviene molto tardi rispetto a lingue neolatine come provenzale, francese, castigliano, catalano; e al tedesco. Dante afferma che i primi testi italiani poetici di alto stile sono di ben centocinquant’anni più tardi dei provenzali. Ciò si deve alla resistenza ostinata del latino medioevale ecclesiastico e giuridico, con una ripresa di latino classico nel XV secolo.
  • Per altri secoli, gli Italiani furono quadrilingui, usando latino e dialetto per le forme di normale comunicazione; e l’italiano letterario per la poesia e per la prosa narrativa. La quarta lingua, quella cancelleresca, mista di latino, volgare e dialetto: ne abbiamo evidenti esempi nei Privilegi calabresi di età aragonese e spagnola.
  • Le parlate locali vennero usate spesso come lingue ufficiali, e così fece Venezia; e, nel XVII secolo, provò a farlo il Regno di Napoli. Solo nel Settecento l’italiano diviene lingua ufficiosa o ufficiale di tutti gli Stati della Penisola.
  • Di come effettivamente parlassero, un buon modello è un testo palesemente scritto in fiorentino discorsivo, il Principe del Machiavelli, come prova a sufficienza l’aver reso, con fonetica locale, “golpe e lione” il dantesco e latino “non leonine ma di volpe”.
  • Tutt’altra storia quella dell’italiano letterario, risolta, ma solo per la letteratura, dal Bembo con il modello della prosa toscana del Trecento, e del Petrarca per la poesia, come certificato e controllato per secoli dalla Crusca. La lingua parlata veniva di fatto abbandonata al suo destino.
  • Napoleone tentò di fare del francese la lingua dell’Impero: era una scelta non nazionale ma ideologica e politica, essendo il francese una lingua cartesiana, razionalistica, borghese. Fu proprio a questo che si ribellarono le Nazioni, a cominciare da quella germanica. Il nascente patriottismo italiano si pose il problema serissimo di dotare di una lingua unica l’Italia che non ne aveva.
  • Il modello manzoniano di media e corretta eleganza si rivelò impari alla bisogna: esso infatti comporta che a parlare siano dei moderati e ragionevoli, e uniformi in tutta la Penisola; mentre la realtà era fortemente regionale; e, soprattutto, si rivelerà molto più variegata e contraddittoria e a tratti violenta che non immaginasse il Manzoni.
  • I modelli carducciani e dannunziani, sicuramente più espressivi, non avevano certo argomenti e modalità per divenire popolari; quello verista era descrittivo, non mai normativo.
  • La lingua italiana venne diffusa di fatto dal servizio militare e dalla scuola. Questa, faticosamente penetrando presso tutti i ceti e luoghi, e superando con difficoltà le resistenze dei dialetti, pose gli Italiani nelle condizioni di capire e farsi capire. Era un gran passo avanti rispetto al passato, tuttavia insufficiente, e, a mio avviso, è insufficiente tuttora.
  • Quasi tutti gli Italiani del 2016 sono in grado di esprimersi in lingua nell’essenziale; moltissimi usano la lingua correttamente nell’esercizio della loro attività lavorativa; ma troppi credono ancora che la conversazione privata, il tifo calcistico, il corteggiamento, le battute di spirito e il caffè al bar si possano tenere e chiedere e suggerire meglio in una lingua sui generis, mista di reminiscenze scolastiche e italiano regionale e dialetto.
  • Tra i troppi di cui sopra, credo siano da annoverare anche gli insegnanti. Se, infatti, per un solo esempio, in tutta la Valle del Tevere e dintorni i parlanti italiano parlano sì italiano, e sono convinti lo sia quello che parlano, però continuano a informarci di essere “de Roma”, ho il fondato sospetto che a scuola abbiano detto loro che “er Dante era de Firenze”, o, a Firenze, “il Dante l’era fiorentino”, o, più spiccio, “l’era di vi”.
  • Figuratevi cosa non succede a Catanzaro e a Venezia e a Napoli quando il docente, dopo aver insegnato, e avvertendo del fresco, suggerisca al suo allievo di chiudere la finestra. Per piangere i guai miei, il calabro urlerebbe “’on u serri su hinestrali ca si schiatta do friddu?”; s’intende, dopo aver spiegato in forbita lingua o “fanno dolore ed al dolor fenestra” o “la defenestrazione di Praga”.
  • Cosa capisce, inconsciamente, il fanciullo? Che si studia in italiano la defenestrazione, ma la finestra si chiude in dialetto. Ciò avviene in gran parte d’Italia: meno dove il sostrato è galloromanzo come nella Pianura Padana, o in presenza di altra lingua come il sardo, situazioni che non favoriscono quella commistione che avviene invece continuamente dove il sostrato… beh, adstrato quando non strato, è italico, cioè Sicilia, Penisola e Veneto.
  • Finisce dunque che si usa una specie di italiano dialettale, il cui modello è quella scimmiottatura del romanesco che si parla oggi a Roma, da film di Pasolini a film di Pierino, alla tv. E non va bene, perché l’italiano consente di tutto, anche la battuta e la parolaccia, senza dover ridurre l’umorismo a qualche “ahò”. La lingua italiana non è, infatti, solo ufficiale e grammaticale e di stile medio e controllato; si può chiudere una finestra e mandare al diavolo qualcuno o dichiarare l’amore o far battutacce e sarcasmo… Direi che la soluzione del problema della lingua è banale: parlarla.
  • Dell’inglese, un’altra volta.

Ulderico Nisticò


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