Premetto che, da storiografo classico, io amo giudicare i governi prima di tutto dalla loro politica estera. Ho appreso con grande interesse dei viaggi politici della Meloni in Algeria e altri atti in Africa Settentrionale; e della decisione con cui si mette, e con le spicce, l’Europa di fronte alle sue responsabilità per la questione dei clandestini; e ora di questa importante visita in India.
Non so se vi siete accorti che dell’India non si parla molto. Eppure è uno Stato di 3.380.000 kmq, undici volte l’Italia; e un miliardo e mezzo di abitanti, in continua crescita. È portatore di singolarità che sfuggono a molti distratti osservatori.
Impossibile qui riassumere la millenaria storia, che ha visto ogni sorta di popoli (ci furono per secoli dei Regni greci con statue di Budda somigliante ad Apollo) e ripetute invasioni e unità e frammentazioni di entità statali. Nel 1876 – trionfo del cosmopolitismo – il primo ministro britannico, il livornese di origine israelitica Beniamino Disraeli, proclamò, da primo ministro, imperatrice delle Indie la regina Vittoria di Gran Bretagna e Irlanda, però di puro sangue tedesco e maritata con un Sassonia. Durò poco, e, subito dopo la Seconda guerra mondiale, per azione pacifista di Ghandi (io qui onoro anche Kandra Bose) ma fallita la sua utopia di convivenza, e non senza scontri armati, nacquero l’India induista e un assurdo Pakistan musulmano, da cui si staccò trent’anni dopo, con guerra, l’attuale Bangla Desh.
Torniamo all’India propriamente detta, e cominciamo dalle etnie. Si parlano circa 400 lingue, di cui 250 sono indoeuropee: non è qui luogo per una lezione di glottologia, però sappiate che sette si dice in sanscrito saptà come in latino septem e in greco heptà… e il re si chiamava rajà, e uno più potente lo chiamavano maharajà (magnum regem), eccetera. Parlano lingue indoeuropee le etnie di pelle bianca; mentre parlano lingue dravidiche le etnie di pelle bruna o nera. Sono lingue antiche e complesse, ed ecco che in India usano una lingua veicolare pratica e semplice: l’inglese.
Si venerano varie religioni: il cristianesimo c’è dai tempi di san Tommaso Apostolo; sono rimasti pochi i musulmani, dopo la sanguinosa divisione dal Pakistan; non sono molti i buddisti, anche se Gautama era un principe indiano; e i più praticano l’induismo tradizionale, con un radicato politeismo di un immenso numero di dei, che gli Indiani non hanno alcuna intenzione di abbandonare, tutt’altro.
Come vedete in tv, gli Indiani, in qualsiasi loro momento anche ufficiale, si vestono da indiani, e non in giacca e cravatta, che pure normalmente portano i Russi, i Cinesi, i Giapponesi. Niente, il primo ministro indiano ha accolto in gonna una Meloni in abito lungo. Gioia per i miei occhi, io che, seguace del Vico, credo a “questo mondo di nazioni” ognuna per conto suo e senza patacche di americanizzazione superficiale. L’India veste indiano, e quindi ha un’indiana mentalità: teniamone conto.
Questo immenso Paese mostra nello stesso spazio l’arcaico e il postmoderno, con sacche di arretratezza accanto a sviluppo tecnologico; elefanti da lavoro e computer. C’è dunque grandissimo spazio per l’economia italiana. Ma nessun poeta s’illuda che possa esistere un rapporto economico che non sia anche, e forse soprattutto, un rapporto politico.
Ulderico Nisticò