Arrivati ad una certa età, capita a tutti o quasi di ripercorrere e fare delle considerazioni su cosa sia il tempo per l’uomo, oggi come ieri, perché solo tardi ci accorgiamo della differenza esistente tra “essere vissuto” ed “aver vissuto”; e così accade spesso di essere “fuori tempo massimo” per tornare indietro e riprendersi non dico gli anni ed i mesi ma neppure il famoso “attimo” di Faust. E’ lui, il tempo, il peggiore nemico dell’uomo; è lui, il tempo, il sadico artefice al quale tutti noi, in un modo o nell’altro, ci rivolgiamo supplici ed imploriamo di fermarsi, di non cancellare i ricordi, di non distruggere gli amori e gli affetti, di non farci dimenticare sia le gioie sia i dolori che temprano l’animo e mantengono vivi la memoria, altrimenti incenerita dall’oblio. E’ sempre lui, il tempo, che lentamente quanto inesorabilmente affievolisce lo spirito ed intorpidisce i sensi; è ancora lui, il tempo, che ci precipita nell’assuefazione e nella routine, appiattendo ed annichilendo gli avvenimenti, svuotandoli dei significati, che ci porta ad accettare tutto, anche l’oblio dei nostri morti e delle cose più care. Quanta ancora risuona disperata l’esclamazione di Evandro (Eneide, VIII, 560): “O mihi praeteritos referat si Iuppiter annos.” Ma nessuno, nemmeno il sommo Giove, poteva riportargli gli anni trascorsi; il tempo scorre via in continuazione, senza soluzione, cambiando e divorando ogni cosa con voracità inaudita; né “questo vile avversario”, come lo definì il poeta francese Paul Valery, conosce pietà o compromessi ma, come un fiume inarrestabile, travolge tutto nella sua corsa senza fine, cancellando nomi, forme, natura, destini secondo l’eracliteo “pànta rèi os potamòs”. L’inesorabilità dell’ora che cambia, muta anche noi, pur se non ce ne accorgiamo: “Vassene ‘l tempo e l’uom non se n’avvede”, canta Dante nel Purgatorio (IV, 9). Il giorno in cui ci si rende conto di questo, è la fine del tempo, di noi stessi quindi, perché noi siamo il tempo, e vi siamo vissuti senza vederci vivere, senza poter guardare in faccia questo tiranno, imprevedibile ed incontrollabile: il tempo non cammina a ritroso e già mentre scrivo “è quel che fu”, un macigno impossibile da riportare “al vertice di rovinosa frana”, difficile da capire e conoscere, da guardare e soprattutto fermare. Nelle “Confessioni” (libro XI, cap. 14), di S. Agostino, leggiamo: “Che cosa è, allora, il tempo? Se nessuno me lo chiede, lo so; se dovessi spiegarlo a chi me lo chiede, non lo so: eppure posso affermare con certezza di sapere che se nulla passasse, non esisterebbe un passato; se nulla sopraggiungesse, non vi sarebbe un futuro; se nulla esistesse, non vi sarebbe un presente.” Nella cultura dell’antica Grecia troviamo una distinzione che chiarisce in qualche modo il tempo convenzionale variamente misurato, dalla clessidra agli orologi in pietra d’allora e a quelli atomici d’oggi, ed il tempo che riguarda la nostra esistenza, i fatti e gli affetti che ci coinvolgono nel bene e nel male, ossia dall’interno e quindi come kairòs, in contrapposizione al krònos, al tempo esterno a noi. Nel primo caso parliamo di tempo esistenziale, soggettivo, che viviamo nella dimensione psicologica individuale, quello che ci fa dire frasi del tipo “come vola il tempo”, “ com’è finita presto la giornata”; nel secondo, invece, ci riferiamo al tempo oggettivo, storico, misurabile, spesso pesante e noioso che ci fa dire “il tempo non passa mai”. Il Kairòs riguarda, dunque, la nostra intimità, non ha carattere quantitativo ma qualitativo e la sua durata non può essere soggetta a numeri e calcoli, ossia al tempo cronologico e storico, ma dipende dalla qualità ed intensità dell’esperienza interiore d’ognuno di noi. In questo modo d’esprimere il tempo, definito soggettivo, ha preminenza il fine che ognuno di noi si propone e se è vero che è pur sempre una temporalità cronologica quella in cui ci si muove, ciò avviene però in una prospettiva di libertà e responsabilità individuale. Il concetto di tempo assume allora specificità variabili che dipendono dalle nostre esperienze e dalla possibilità di gestirlo: il tempo lieto e gioioso passato tra le persone amate ed i divertimenti, sia morali sia materiali, non è lo stesso di quelle interminabili attese offuscate dalla noia e dall’impossibilità di autonoma gestione, soprattutto quando si è in un contesto che lo dilata in modo abnorme, sin quasi ad annullarlo, come accade nella realtà carceraria. Qui l’eternità spaziale del tempo significa sofferenza ed appiattimento mentale per le giornate sempre uguali, significa l’inedia totale, significa la negazione di sé, d’ogni possibilità di gestire liberamente le ore, i giorni, i mesi, gli anni, che diventano così un tempo pesante, segnato dal male e scandito dal dolore. A tal esistenza si può ben applicare quella dell’anziano che Qohelet, il sapiente più pessimistico della Bibbia, disegna in maniera sconvolgente, paragonandola ad un castello che il fluire vorace del tempo sgretola lentamente in tutte le sue componenti, le quali altro non sono che gli organi del corpo in disfacimento. Il krònos, termine usato dalla cosmogonia e dalla tradizione orfica, è il tempo ciclico, il susseguirsi delle stagioni e quindi l’inizio e il chiudersi del cerchio della nostra esistenza, che non ammette spazio per le libertà individuali. Secondo il filosofo presocratico Anassimandro, “dal tempo hanno origine gli esseri, e, sempre da esso, hanno anche la distruzione secondo necessità: gli esseri pagano, infatti, l’un l’altro la pena e l’espiazione dell’ingiustizia secondo l’ordine del tempo”. Nella prima lettera a Lucilio, il filosofo Seneca scrive che “tutto dipende dagli altri, solo il tempo è nostro. Abbiamo avuto dalla natura il possesso di questo solo bene sommamente fuggevole, ma ce lo lasciamo togliere dal primo venuto (…) ed esso (il tempo) è l’unico bene che nessuno può restituire (…)”. Occorre allora che ognuno sia geloso del proprio tempo, che non lo sprechi, che lo conosca, che lo osservi come un “oggetto” da noi separato, cercando di non subirlo passivamente ma di viverlo, vedendovi noi stessi viverci. Per Platone (Timeo, 37 d), il tempo, creato assieme al cielo, è un’immagine mobile dell’eternità, cui la divinità ha dato la caratteristica imperitura e che procede secondo il numero, creando una contrapposizione tra eidolon (imitazione) inseparabile dalla condizione ed esperienza umana, ed aiòn, la pienezza di vita di natura divina, l’eternità, cui l’uomo può aspirare solo se riesce a liberarsi dalla caducità delle esperienze umane, ossia non vivendo “ammazzando il tempo”, ma impiegandolo con generosità anche a favore degli altri come vera sostanza della vita. Dare parte del proprio tempo, la cosa più preziosa che abbiamo, agli amici, agli anziani, agli ammalati, ai bisognosi in genere, è come dare una parte della propria vita. Solo in questo caso, forse, non saremo angosciati e stressati dallo scorrere inesorabile del tempo, ossia dal pensiero della morte con cui tutti, prima o poi, dobbiamo fare i conti; solo così, forse, non avendo il dono dell’immortalità, non saremo angustiati e presi nella morsa delle nostre ipocrisie, dubbi, paure; solo così non saremo terrorizzati dal cambiamento continuo del nostro essere, sia fisico sia intellettuale, che ci accompagna dalla prima infanzia all’adolescenza, alla giovinezza, alla maturità, alla vecchiaia; solo così vivremo, vedendoci ed assaporandone la gioia, le varie esperienze che si alternano immancabilmente una dietro l’altra perché, alla fine, il tempo non è a sé stante, non è un oggetto esterno, e noi siamo nel tempo: inutilmente ripeteremmo all’infinito, il faustiano “Attimo, fermati! Sei bello”.
Adriano V. Pirillo