Il 21 di dicembre, che sarebbe stato il Solstizio d’inverno, pioveva; poi era Natale, Capodanno… e abbiamo deciso per il 4 gennaio. Abbiamo, chi? Boh, non importa: un gruppo di amici, in testa Francesco Cuteri. E abbiamo volentieri accettato l’ospitalità del lido S. Domenico, per essere a riparo da dispettosi mutamenti d’umore delle nuvole. La fascinosa voce di Claudio Rombolà ha recitato al meglio questi miei versi. E infine, “riconoscendoci un popolo”, assieme abbiamo salutato simbolicamente il ritorno della luce.
Solstizio
Nell’ultimo tiepido autunno, tra tronchi spogliati di fronde,
quando la spinosa castagna non più offre il molle midollo,
e cadono i pomi succosi che non potemmo raccogliere;
lungo i solchi neri ove giace la semina, fatica dei buoi,
affretta il ritorno il viandante, e avvolge il mantello alle spalle,
guardando mancare la Luna; e il marinaio sapiente
temette il segno avverso di Orione, e trasse sulla spiaggia la nave.
Nella salda casa di pietra, eredità degli antichi,
riparo di turbini e tuoni, percossa da sibili e fulmini,
a noi è consolazione la brace, e ravvivare la fiamma
con legna asciutta; e la forza del succo degli acini pieni,
schiacciati da piedi veloci, fugace rimedio del freddo.
A noi cui nel cuore e negli occhi discolorava la terra,
e più fievole apparve l’azzurro, velato di manti di nuvole,
e rare si affacciano ancora nelle cupe sere le stelle;
a noi insinuava paura il giorno ogni giorno più pallido,
inquieto indizio di fine – per il desiderio di vivere
fuggiamo l’artiglio tenace, la dissoluzione del sangue,
e la dimenticanza dell’alba, dei sogni, delle ore di pena,
del fuoco di guerra, dei dolci inganni intrecciati d’amore;
e il buio ci è figura di abisso, e scendere nei putridi luoghi
e polvere di lungo abbandono – a noi le membra contaminano
il rapido vento dei monti, e l’umida bruma del mare,
e la fitta pioggia, e la grandine precorrono il silenzio e la neve.
Dall’alba alla sera un istante compare e svanisce il chiarore,
e lamentiamo le grevi nebbie del giorno e dell’animo,
brevissimo il dì, e lunga lenta trascorre mestizia sottile
come un serpente nel petto, che non sappiamo scacciare.
Noi ora levando le mani a chi è solo Signore dell’essere,
che è molti nomi e potenze, e di tutto l’alfa e l’omega,
che ha disseminato benigno dovunque ogni aspetto di vita,
che, somma sapienza e saggezza, governa l’universo e ciascuno,
e il Sole ne è corona regale; e assegna l’inizio e la fine,
noi che ora conosciamo l’angoscia che innalza, ed il pungolo acuto,
che spinge ai confini del mondo e oltre le porte del cosmo,
noi foglie di ramo caduto e frecce di arco spezzato,
noi indocili servi, noi zolla desiderosa di cielo,
ciascuno di noi solo e uno, e riconoscendoci un popolo,
temiamo non sia eterna la notte, non cessi il continuo circolo
che è misurazione del tempo e nostro dominio del mondo,
e con i moti fissi degli astri già diamo a un altro anno altro nome,
e ciascuno di noi conta i giorni sperando la sera, preghiamo
non sia trionfante la notte; e, vincitrice suprema,
domani come nuova speranza, ritorni per i vivi nelle anime,
come ora assieme invochiamo, per ansia e per gioia, la luce.
Grazie a tutti quelli che sono stati presenti, e a chi ha parlato di un momento di “magia”.
Ulderico Nisticò