Il coronavirus dei già malati, e l’economia.


In Italia si contano circa 200 morti. Nel darne notizia, i giornalisti si affrettano a spiegare che erano “anziani” e, o “con malattie pregresse”. E dicono cosa abbastanza attendibile: un organismo forte, infatti, resiste meglio al coronavirus come a qualsiasi altra malattia (“vis sanatrix naturae”); un organismo debilitato, è più soggetto. Mi pare ovvio.

 Applichiamo tale logica alle altre notizie funeste, quelle economiche: l’Italia perderà un punto della sua economia. Ed ecco che gli stessi giornalisti i quali accusano la vecchiaia e non il virus, accusano il virus e non la vecchiaia, cioè la debolezza generale.

 Il virus, infatti, c’è da un mese; e non è credibile che il crollo dell’economia italiana sia avvenuto in trenta giorni tutto compreso: ma è come i già malati, che sono già malati da un pezzo, e in più si beccano il virus. L’economia italiana è in crisi, in cachessia, e questo da molto tempo; dobbiamo capirlo, e senza cercare cause immediate e magari dovute al cattivo destino come pensava don Ferrante. O cercare scuse per rinviare referendum; oppure le nomine di assessori in Calabria, a babbo morto.

 Ora io, da storico dilettante, posso capire che, nei secoli passati, un popolo patisse la fame o per siccità o per troppe piogge o per esaurimento della terra o per guerra persa. Erano tempi pretecnologici, in cui si arava con i buoi, e nel 1920 un ettaro di terra italiana rendeva appena tre quintali di grano.

 Ma oggi, oggi che non solitari scienziati e profeti, ma qualsiasi seminalfabeta, e con quattro soldi, compra un computer e si collega quasi gratis con l’Australia, via un satellite di cui ignora l’esistenza e la rotta e la proprietà… oggi, se l’Italia (anche gli altri, ma io piango i guai miei) è in crisi economica perenne, non è perché sono morti i buoi o piove o non piove, ma perché l’economia avrebbe immani potenzialità, però è gestita malissimo.

 Gestita male, da chi? Anche dai governi, con la loro debolezza e cadute e risalite; anche dai burocrati, capaci solo di porre ostacoli, o per dolo o per stupidità. Nulla dico degli economisti plurilaureati: essi sono dei tecnici, e, incapaci di pensare e dubitare, come spiega benissimo Platone, dovrebbero solo eseguire quello che ordinano i filosofi.

 Ed ecco cosa manca: i filosofi. Filosofi, ragazzi, non “philosophes”, parola francese che si traduce giornalista, opinionista; dico filosofi veri, genuini, come, agli albori della società borghese, s. Domenico e s. Francesco, e s. Tommaso d’Aquino. E già: basterebbe il tomistico “iustum pretium”, per assicurare al mondo benessere e giustizia per quanto è umano; e sempre e solo in cambio di fatica. Niente utopie buoniste, che vanno bene solo per i temi della Media!

 Mancano, poi, quei filosofi del fare che un dì furono gli imprenditori, i capitani d’industria, i padroni delle ferriere, che imponevano impegno intelligente ai loro operai e a loro stessi per primi, veri eroi della civiltà del lavoro.

 L’economia è produzione e distribuzione di beni necessari, utili, comodi; i beni sono rappresentati da un mezzo pratico, che è il denaro; ed è follia del re Mida, pensare che il denaro, che è un mezzo, sia invece lo scopo; e che si debba morire di fame per salvare l’euro, che non è manco oro e argento, nemmeno bronzo di Achille (Il. XXIII), è solo un foglio di carta. Anche bruttino, da soldi del Monopoli.

 Ma noi ce la pigliamo con il virus. E l’Europa insiste con gli zero virgola; e l’Italia, prona in libidine di servilismo, sta ai comandi di qualche tonto passacarte di Bruxelles.

Ulderico Nisticò