Calabria, 1769. Cecilia Faragò è l’ultima fattucchiera processata per stregoneria nel Regno di Napoli.
Con lei muoiono i segreti della terra in un luogo del mondo in cui la terra è potere.
Chi è la magàra Cecilia?
Fata o strega, lucifera, portatrice del sole o della luna, infine e prima di tutto una donna.
Che si appropria della forza tellurica dal ventre del mondo e ne fa decotto di erbe, credenza, maleficio.
Lamagara è la donna che pensa, che guarda troppo avanti, che sospetta, che non crede a niente.
La strega a cui il mondo chiede di nascondere le sue ipocrisie, per poi lapidarla per le sue stesse colpe.
Una microstoria che si affaccia dal passato, un urlo di redenzione da quel mondo di storie disperse che formano la memoria negata del genere femminile.
Profetessa dell’uguaglianza e donna irregolare di un Mediterraneo arcaico, viscerale, erotico, fatto di magismo, superstizione e divinazione, domina la natura aspra della terra, dei suoi frutti, dell’acqua, del fuoco.
Notti di luna e profumi arcani di un Sud dell’anima e del corpo raccontano quel fuoco di rabbia che seduce, verità di ogni tempo senza sovrastrutture.
Lamagara mette in scena i luoghi eterni della generazione e dell’eros, della diffusività maternale di vita, morte e reificazione in corpore feminae.
Non un semplice monologo, ma un’interazione di voci della storia, sommerse nell’oblìo di un presunto peccato, che si elevano, con il personaggio di Cecilia, verso la luce, a smascherare il doppio volto della verità dell’uomo, le pieghe della sua quotidiana magia.
Un linguaggio denso e terrestre come humus, impastato di un materiale verbale pieno e screziato dove il corpo è utilizzato come strumento della narrazione che coinvolge lo spettatore in una esperienza sensoriale potente, poetica e parossistica.
Lo sguardo di Emanuela Bianchi diventa parola, genesi, riscatto di una verità selvaggia, processata dalla storia.