Da un punto di vista giuridico, se uno si volesse divertire a giocare al piccolo avvocato, sarebbe complicatissimo quanto precedette il 17 marzo 1861. Quel giorno venne approvata una legge che recitava così: “Il Re Vittorio Emanuele II assume per sé e suoi successori il titolo di Re d’Italia”: sono, curiosamente, 17 parole in tutto. Perché il 17 marzo? Probabilmente perché era la data in cui, nel 1805, Napoleone I si era proclamato re d’Italia. O il 17 aveva qualche significato esoterico segreto? Non me ne intendo, di queste cose notturne, grazie a Dio!
Studiamo le 17 parole: “Il Re Vittorio Emanuele II”. Vittorio Emanuele è già Re, ma di cosa? Solitamente e per brevità, si dice Re di Sardegna, quali erano i Savoia dal 1720; ma il Savoia di volta in volta regnante manteneva anche tutti gli innumerevoli titoli piemontesi accumulati dai vari rami della casata dall’XI secolo e poi confluiti in uno solo; sebbene dal 1860 avesse perso quello di duca di Savoia con la cessione di questa, con Nizza, alla Francia.
Il Regno di Sardegna, come era comunemente inteso dal 1814, si estendeva dall’isola agli attuali Liguria, Piemonte, Val d’Aosta e, prima, dicevamo, Nizza e Savoia; e Briga e Tenda, poi perse nel 1947. Si era esteso di fatto a Mentone già monegasca, poi passata alla Francia con Nizza. I tantissimi feudi piemontesi si consideravano aboliti di fatto, sicché lo Stato era amministrato in modalità centralista.
Con i tumultuosi eventi del 1859-60, e con i Trattati di Zurigo (10 novembre 1859) tra i vincitori Francia e Sardegna con l’Austria; e di Torino (30 marzo 1860) tra Francia e Sardegna, il Regno di Sardegna aveva annesso Lombardia senza Mantova; Parma; Modena; Bologna; Toscana. Annesso, giuridicamente, significa che cessavano le precedenti condizioni di: territorio del Regno Lombardo-Veneto; Ducati indipendenti di Parma e Modena (questo nel 1829 aveva annesso Massa); Granducato di Toscana (che nel 1847 aveva annesso Lucca); Legazioni pontificie. Il tutto era stato legalizzato non solo dai Trattati, ma da Plebisciti. Su tutti i plebisciti dell’umana storia si può eccepire: quello di Nizza diede il risultato di 43.000 sì su 43.000 votanti; Napoleone III era maestro nell’arte di far votare la gente con le urne già votate il giorno prima!
Da notare, sempre per gioco, che il Trattato di Torino era in evidente contraddizione con quello di Zurigo; ed era firmato solo da Francia e Sardegna, senza coinvolgere l’Austria. Tanto meno informare il Regno delle Due Sicilie, che del resto non ne lesse nemmeno sui giornali e mantenne la sua patetica passività. Tacque Napoli, sebbene il Re si fregiasse dei titoli ufficiali di Duca di Parma, Piacenza e Castro, e Gran Principe Ereditario di Toscana; tutta roba annessa a Torino nella più serafica indifferenza del Borbone. L’Austria, sconfitta in campo e preoccupata delle sue faccende interne, non protestò.
Volendo dunque continuare a giocare all’avvocato di diritto internazionale, ci sarebbe da svagarsi a cercare cavilli. Ma tutti sappiamo che non c’è niente al mondo di più labile del diritto internazionale; e qui ne stiamo scrivendo solo per farne un caso di scuola.
Seguirono i fatti del 1860. Garibaldi sbarca in nome di Vittorio Emanuele II, il quale non si esprime a tale proposito né in un senso né in un altro; e tanto meno batte ciglio Francesco II, tranne che gli venne l’ideona di ripristinare la costituzione odiatissima da esercito e popolo. Per qualche mese, nasce uno Stato dittatoriale garibaldino corrispondente al di fatto cessato Regno delle Due Sicilie, e non è chiarissimo quali intenti covi Garibaldi. L’intervento minacciato dalla Francia, e forse dall’Austria; e quello effettualmente attuato dalla Sardegna su incarico di Napoleone III, lo convincono a rinunciare a ogni proposito e a farsi relegare a Caprera. I Plebisciti di Sicilia, Napoli, Marche e Sicilia danno al fatto veste formale: vedi sopra. Ma ripassatevi il Gattopardo: il principe, intimamente borbonico, vota sì all’annessione per l’evidenza che non c’era altro da fare, ma o l’Italia o l’anarchia.
Il fatto è che, alla fine del 1860, quello che si chiama ancora Regno di Sardegna si estende a tutta Italia, tranne Veneto e Mantova; e Roma e parte dell’attuale Lazio. La situazione non era definita: a Francesco II restava ancora Gaeta; il papa era protetto da Napoleone III; Austria e Spagna non riconoscevano la situazione.
In tale precarietà, occorreva un atto formale, un colpo di spugna che a sua volta non creasse altre complicazioni. Si attese l’elezione della Camera nel febbraio, e la caduta di Gaeta, accelerata il più possibile; e si approvò sul tamburo una legge con “articolo unico”, che, a ben vedere, non riguardava la formazione dello Stato, che si dava per nota e sottintesa, ma il titolo del Re, che, implicitamente, aboliva tutti gli altri.
Ah, già, tra i chilometrici titoli che Vittorio Emanuele II deponeva, c’erano quelli di Re di Cipro e Re di Gerusalemme; poco male, perché l’Europa pullulava di tali Re di Cipro e Gerusalemme, meramente nominali: se ne fregiavano anche i Borbone. Ma Gerusalemme era in mano turca dal XII secolo, e così Cipro, che nel 1878 diventerà britannica.
Alla ricerca del meno possibile di cavilli, non si eccepì a che Vittorio Emanuele restasse II; onde evitare confusioni con il lontano parente che aveva regnato appena pochi anni prima, o avremmo avuto due Vittorio Emanuele I in troppo poco tempo. Il successore, non temendo confusioni con un avo di ottocento anni indietro, si chiamò Umberto I. Per la cronaca, Carlo III di Gran Bretagna non è mai stato preceduto da Carlo I e Carlo II, i quali erano re d’Inghilterra e di Scozia ancora separati; Elisabetta II era seconda rispetto a una prima di sola Inghilterra. E nemmeno si segue una numerazione dinastica, giacché Elisabetta I era Tudor, i Carli erano Stuart, e l’attuale è Hannover-Windsor. Del resto, non ci fu mai un Carlo V re di Napoli, ma tutti pensano così.
I principi deposti tra 1859 e ‘61 non rinunciarono mai ufficialmente ai troni; di fatto, i Borbone Parma si rappacificarono con matrimonio con i Savoia nel 1939; gli Asburgo, nel 1918-20, persero tutti i troni, quindi anche quelli italiani; la Chiesa, che non aveva mai riconosciuto le perdite territoriali, chiuse il contenzioso con i Patti Lateranensi del 1929; i Borbone delle Due Sicilie rivendicano platonicamente il trono, in concorrenza con un ramo spagnolo. Nel 1946, con il solito sistema plebiscitario, e anche ciò sia detto con tutte le ovvie riserve, l’Italia è Repubblica, il che, giuridicamente, lascia alla storia tutti i vecchi troni, compreso quello d’Italia.
Se un domani l’Italia volesse tornare un Regno… non potrebbe farlo con l’attuale costituzione, che lo vieta. Poco male, una soluzione si trova; e basterebbe un altro articolo di 17 parole. Sarei curioso di sapere chi farebbe il Re.
Ulderico Nisticò