Su un foglio locale, alcuni dirigenti o ex della Crusca si mettono a fare polemica partitica, nemmeno troppo raffinata, sulla questione della lingua; e, per dire la loro su recenti polemiche, se la pigliano con la politica linguistica del Ventennio. Forse i cruscanti hanno bisogno di un ripassino di storia.
Catone Censore, trovandosi ad Atene, pretese – giustamente – di parlare alla sottomessa popolazione in latino con traduzione; e gli Attici si stupirono di quante inutili parole greche servissero per rendere le poche e solide del rustico romano. Sono in buona compagnia, dunque, se mi preoccupo della lingua; e, con Catone, mi trovo Lucilio che prende in giro i grecizzanti; e Catullo che gabba uno che, dovendo parlare delle onde ionie ne fece “khiones” cioè tempestose, pur di sfoggiare il suo appiccicaticcio greco. Lamenta l’invasione del greco anche Giovenale. E, in quegli stessi anni, venne espulso dal senato uno di origine macedone che non parlava latino. Attenti qui, e siccome il discorso sarebbe lungo, credetemi sulla parola. Il latino è la lingua politica e giuridica; e non si può governare l’Impero se non in latino. Una notizia curiosa. Arriano, greco di nascita e lingua ma alto funzionario imperiale, scrive in greco un racconto della sua ispezione nel Mar Nero; però la relazione all’imperatore Adriano, riservata, e, purtroppo a noi non giunta, la stende in latino.
Eppure, ogni latino appena istruito conosceva il greco, che era la lingua veicolare dal Mediterraneo all’India; e la letteratura e la filosofia greche: lusus, otium, penserebbe ogni genuino Quirite; ma la politica e l’esercito, sono tutt’altra cosa; e hanno bisogno di una lingua pura e controllata, evitando, disse Cesare “ogni parola nuova come una nave evita gli scogli”.
Il problema della lingua non è dunque se un oggetto si chiama… per esempio, computer con cui sto scrivendo queste righe; che deriva dall’inglese, però prima da computo, italiano medioevale, a sua volta dal latino. Il problema nasce quando l’avvocaticchio, per darsi le arie, chiama Vostro Onore il giudice; e quando, nei film, due tizi qualsiasi, nostalgici di un adolescenziale amore, dicono “Eravamo al Liceo”, mentre fanno tutt’altro, ancorché rispettabilissimo mestiere, che la trigonometria e l’aoristo terzo: e Liceo, in USA, vuol dire una qualsiasi scuola superiore; e lo stesso per “college” e “campus”, che danno una utilissima però modesta preparazione pochissimo problematica: e in Italia stanno rendendo le Università e i Licei delle americanate; e, con buona pace degli Americani (e anche di tantissimi Calabresi!) preparazione non è sinonimo di cultura, anzi spesso è un contrario.
E, per ultimo e importante esempio, quelli che dicono “governatore” per presidente di Giunta, gli attribuiscono poteri che non ha.
Non sono dunque le parole che contano, ma la loro valenza e il contesto; e il problema è non solo e non tanto evitare di parlare straniero, quanto e soprattutto evitare di pensare straniero.
Dante, chiamato in causa a sproposito, non ha scritto la Commedia in lingua altrui; anzi nemmeno in latino, ben sapendo che voleva parlare agli Italiani. E non è che, per scopi di successo internazionale, chiamò, “imperial dog” il Veltro!!!
E, in un’opera apposita, De vulgari eloquentia, l’Alighieri insegna che una lingua non si lascia a briglia sciolta e all’uso anarchico, bensì dev’essere affidata a chi la sa rendere “illustre”, cioè ai poeti. E solo i poeti decidono quali parole usare e, se mai, l’esigenza di accogliere parole latine, greche, straniere, e, perché no, dialettali. I dialetti sono lingue neolatine: però attenti a quelli che, scarsi di conoscenza dell’italiano, spacciano la loro sconoscenza per “identità”.
Sono i poeti e scrittori che difettano; e magari a scrivere davvero sono… attenti a questa parola volutamente americana… gli “editor”, per vere o presunte esigenze di cassetta; o, peggio del peggio del peggio, di politicamente corretto; e magari pensano che Scipione (quello dell’elmo!) fosse uno Africano, mentre dall’Italia andò in Africa per battere Annibale fuori casa.
Che devono fare, i poeti? Quello che fece d’Annunzio, che, dopo aver pilotato un aereo francese, si mise subito all’opera per creare la nomenclatura aeronautica italiana.
In ogni caso, “ne quid nimis”. Va benissimo, secondo me, anzi urge arginare l’invasione di barbarismi; però, non esageriamo, come accadde, proprio nel Ventennio, quando i “cow boys” vennero tradotti “butteri”!
Ulderico Nisticò