Dal punto di vista etimologico, il termine si ricollega al verbo latino “in-videre”, da “in” (contro) più “videre” (guardare, osservare), ossia guardare male, con avversione. Nel XIII canto del Purgatorio, Dante ci mostra gli invidiosi con gli occhi cuciti da filo di ferro, secondo la legge del contrappasso in antitesi all’accezione classica del lemma, in quanto vissero guardando il proprio prossimo sempre con rancore, godendo delle disgrazie degli altri: ”Fui delli altrui danni lieta assai…”, dice Sapia. Anche Socrate non sfugge a quello che, secondo il Cristianesimo, è il peggiore dei vizi capitali in forte contrapposizione alla carità, come appare chiaramente nello Ione (Platone, 538 c, 539 d) quando il filosofo cita a memoria alcuni versi dell’Iliade e dell’Odissea ed impedisce per ben due volte con varie scuse al rapsodo (Ione), di dare una prova della sua maestria; alla fine del dialogo Socrate si trasforma addirittura in una specie di iettatore che, in uno sleale duello col suo antagonista, attira il malocchio (phtònos) sull’arte del rapsodo che scompare nel nulla: anche il saggio, a volte, è offuscato dall’invidia. Questa, però, affonda le sue radici in quei tempi ben più profondi che videro la mano omicida di Caino e quella di Romolo macchiarsi di sangue fraterno, e d’allora essa non abbandonerà mai più l’animo umano per quel senso di frustrazione e d’incapacità ad ammettere che il nostro vicino, il nostro “fratello”, possa essere più bravo di noi, più intelligente, più bello o più ricco. In una società, come l’attuale, dove tutti sono apparentemente uguali o predicano ai quattro venti l’uguaglianza, ma che poi non trovano pace, in preda ad un’ossessiva competizione all’affannosa ricerca del successo, l’invidia si moltiplica in modo direttamente proporzionale all’opulenta esternazione di una minoranza gaudente a fronte di una crescente delusione della maggioranza popolare costretta ad incassare, suo malgrado, la gelosa esibizione dell’altrui ricchezza, fortuna, notorietà. Ho parlato di gelosia perché l’invidia, come dice Seneca (Ad Lucilium, 84), è uno stato d’animo a due facce che rende infelice “is cui invidetur et invidet”, che acceca sia il povero al quale “mangia il senno e il sentimento” (San Bernardo), sia il ricco che vive con il timore di essere privato dei suoi averi o del potere; e mentre l’invidia ci porta a desiderare qualcosa che, negata dalla Natura o dal Fato o da Dio a noi, è largamente concessa ad altri, la gelosia ci fa vivere nel timore che possiamo perdere quelle stesse cose, ricevute o conquistate che siano.
Ad iniziare dalle “Vespe” d’Aristofane, l’invidia rimane una caratteristica delle democrazie, sia del mondo greco sia di quello moderno, dove dilaga in ogni ceto sociale e colpisce tutti senza distinzione, ma è molto ridotta in quelle società organizzate su modello piramidale, in modo gerarchico; da cos’altro è stato generato l’ostracismo della democratica Atene se non dall’invidia, cui andarono fatalmente incontro, un Aristide o un Cimone? Il popolo, la massa che, in teoria, dovrebbe godere gli stessi privilegi (fama, ricchezza, eccetera) della minoranza più fortunata, vede bene che non è così e si chiede perché esista questa discriminazione sociale tra esseri simili; allora reagisce, secondo Nietzsche, cercando un “gregarismo” difensivo, che è tipico di tutti i movimenti che predicano uguaglianza, socialismo o democrazia in cui “la mandria” odia ed invidia la minoranza dominante. Il filosofo tedesco sostiene quindi che l’inferno non è che pura invenzione dei Cristiani, un tempo reietti e schiavi siti al fondo della scala sociale, e “la cui morale assieme soprattutto all’amore cristiano sarebbe il più raffinato fiore del risentimento”, ove riconosca praticamente il fulcro d’ogni comportamento, ovvero della vita quotidiana; quest’amore universale predicato dal Cristianesimo non sarebbe che un prodotto generato dall’antico risentimento contro i vecchi padroni e che è diventato creativo e divulgativo di valori morali. Contro questa morale degli schiavi si schiera Max Scheler, definendo il risentimento un “autoavvelenamento dell’animo” i cui tratti distintivi sono l’invidia, la gelosia e la smania competitiva che, in un contesto sociale il cui motore propulsivo è l’ideologia del successo a tutti i costi, formano un mix che porta all’ostentazione per il piacere di essere invidiati dagli altri. “La morale moderna, secondo Scheler, poggia in tutte le sue fondazioni
sull’atteggiamento di diffidenza per principio tra uomo e uomo in generale e nei riguardi dei valori etici delle persone in articolare. L’atteggiamento del commerciante che teme d’essere ingannato dal concorrente è diventato già l’atteggiamento fondamentale della conoscenza moderna dell’altro in generale”. Una diffidenza simile è molto vicina all’invidia o al risentimento ed è caratteristica di un soggettivismo moderno esasperato che porta immancabilmente al disconoscimento della carità cristiana o del principio di solidarietà “laica”, la quale dovrebbe essere comunque il cardine di una collettività che dice di lottare e lavorare ad ogni livello per il bene comune. Nella solidarietà auspicata da Scheler l’individuo non deve essere solo se stesso, persona singola, ma anche membro di una “persona-comune”, con responsabilità reciproca della comunità, nel senso che ognuno è responsabile dell’altro e viceversa, il che coincide con l’insegnamento cristiano dell’amore, della salvezza solidale e della carità, sì da rifiutare l’arbitraria morale del risentimento e realizzare invece il valore della solidarietà.
L’amore eccessivo di se stessi, l’esaltazione esagerata dell’Io, devono essere sostituiti dal rispetto per gli altri e da un’umanità verso i meno fortunati tale, che questi non considerino “l’erba del vicino sempre più verde” e non vedano nella buona sorte dell’altro, nel suo status, qualcosa con cui doversi confrontare e da cui ne uscirebbero certamente frustrati, con un senso di fallimento e sconfitta. Per vivere con animo tranquillo, in serenità di spirito, diceva Democrito nel V secolo avanti Cristo, bisogna vivere con moderazione perché il troppo e il poco mutano facilmente con conseguenti turbamenti psicologici. E’ necessario allora rivolgere la mente alle cose possibili, contentarci di ciò che abbiamo, ricordarci che gli estremi opposti non danno né fermezza né tranquillità, senza curarci delle persone che vediamo ammirate ed invidiate. Se guardiamo, infatti, a coloro che vivono tra dolori, sofferenze e guai d’ogni genere, saremo noi ad essere invidiati per quel poco che possediamo, e non saremo portati a lamentarci o a desiderare beni maggiori. Ciò, difatti, ossia invidiare e pensare continuamente ai ricchi o agli altri uomini più fortunati, ci farebbe vivere infelici e compiere azioni contrarie alla legge; se invece pensiamo a coloro che si trovano in condizioni peggiori delle nostre, vivremo con animo veramente tranquillo e potremo respingere da noi alcuni demoni ispiratori quali la gelosia, la malevolenza, l’invidia.
Adriano V. Pirillo