La Calabria, che se ne fregò sommamente di Campanella, Giglio, Nilo, Sirleto, Telesio, eccetera, e anche di san Francesco di Paola, tutti compaesani, figuratevi se si ricordava di Dante Alighieri che era forestiero! E non ve ne venite con il virus: che il 25 marzo bisognava celebrare il Sommo, lo si sa almeno da sei mesi, e nessuno ha fatto o pensato un bel niente. L’assessore alla cultura era Oliverio; Sperlì c’è da una settimana, e il massimo che poteva fare era un comunicato. A proposito, l’ha fatto? Ha tempo, se no, fino a stasera.
Ora Dante me lo ricordo da me.
Firenze, come scrive il Machiavelli, era una piccola città toscana, prima di iniziare, con il XIII secolo, una rapida e inarrestabile ascesa. Dante, a dire il vero, non la vorrebbe, e condanna “la gente nova e i subiti guadagni”; ma, alla metà del secolo, Firenze (Fiorenza, ancora) era cresciuta per abitanti, estensione, potenza militare, e soprattutto per essere il centro politico e finanziario dei guelfi, grazie al solidissimo fiorino, che non era carta come dollaro ed euro, ma una moneta d’oro puro.
Siccome non è assolutamente vero che se un popolo sta bene a soldi sta anche in pace, ma il contrario, Firenze era in continua guerra civile, e lo sarà fino al dominio dei Medici. Prima guelfi contro ghibellini, poi guelfi bianchi contro guelfi neri, e le consorterie una contro l’altra. Dante era per nascita guelfo bianco, e annoverava tra i suoi nemici Corso Donati, che destina all’Inferno; ma era fratello del suo amico Forese, che è in Purgatorio, e della venerata e infelice Piccarda, che è in Paradiso.
Fu però seguendo Corso che, nel 1289, Dante fu tra i vincitori di Campaldino, che commemora nel V del Purg. Detestava infatti apparire un pacioso intellettuale, e vanta le sue reali gesta di guerra; come le più o meno credibili gesta d’amore tutt’altro che stilnovistico: per dirne una, Gentucca lucchese.
Firenze aveva ordinamenti corporativi; Dante, che in verità non aveva un’arte, si finse speziale, e partecipò alla politica. Nel 1300 fu priore, e in questa veste sarà processato in contumacia e condannato come barattiere: un peccato tipico dei politicanti di allora e di oggi. Ricordo a me stesso che, nella selva oscura, si salva dalla lonza (sensualità), si salva dal leone (superbia), ma per salvarlo dalla lupa (avidità di denaro) occorre l’intervento celeste di Beatrice, che manda Virgilio. Questi sono i fatti: fate voi!
Papa Bonifazio VIII, di cui Dante profetizza l’arrivo all’Inferno, attua un colpo di mano con i guelfi neri e gli Angiò. Inizia per Dante un esilio che non finirà mai.
Era già noto come poeta stilnovistico e scrittore; ricevette soccorsi da guelfi bianchi e da alcune casate nobiliari, che compensò lavorando da segretario e consigliere e ambasciatore; e mai con i suoi versi, che manterrà sempre sdegnosi e liberi. È raro che lodi qualche potente, se non i Malaspina della Lunigiana per meriti “della borsa e della spada”; e, con intenti esplicitamente politici, l’imperatore Arrigo VII di Lussemburgo; e, morto questo, Cangrande della Scala, in cui vede il Veltro.
Nota importante: Cangrande del XVII Par. non è certo il Veltro del I Inf., composto quando quello era ancora un ragazzo; ma lo diventa, e Dante gli attribuisce un progetto che oggi chiamerei nazionalpopolare: “cambiando condizion ricchi e mendici”. Non vuol dire che i poveri diventeranno ricchi al posto del ricchi, perché non cambierebbe nulla; ma che finirà il potere del denaro.
Intanto, pubblicando e diffondendo la Commedia, Dante otteneva grandissima fama popolare, e la gente iniziò a imparare a memoria i suoi canti. Meno successo ebbe ed ha tra i dotti, da quelli del Rinascimento che lo disprezzavano; a Croce che, applicando le due bislacche teorie circolari, chiama la Commedia “romanzo teologico” con qualche sporadico momento di poesia.
Non aveva capito un bel nulla, almeno in teoria: la Commedia è solidamente unitaria, con intenzioni teologiche, politiche, morali, sociali e letterarie: e tutte assolutamente inscindibili.
È un triadico percorso dal buio alla luce divina; seguendo Gioacchino da Fiore, di Celico. Ragazzi, solo la Calabria può essere così ottusa da dimenticarsene.
Che c’entra, Gioacchino? Io lo so, ma non ve lo dico. Studiate, ogni tanto, illustri lettori, e politicanti, e dotti delle università, e scrittori piagnoni dei prodotti tipici e superpremiati a soldi!
Qui si apre, ma si chiude subito, il complesso discorso su misticismo e razionalismo, in qualche modo affrontato nei cc. XI e XII Par. Ve lo risparmio, se non per chiarire che Dante è indiscutibilmente cattolico, e ogni altra lettura è striracchiata e fantasiosa. Mai però senza Gioacchino.
Dante è il padre della lingua italiana. Sì, ma che vuol dire questa rifritta affermazione? Essenzialmente che:
- Come san Francesco d’Assisi e Federico II, Dante prende atto che il latino è una lingua “grammatica”, cioè artificiale, e adatta ad alcune tematiche, ma non ad essere “aulica, curiale, cardinale e illustre”;
- I popoli ormai parlano i diversi volgari;
- Essi tuttavia, di per sé ancora rozzi, hanno bisogno di essere nobilitati e corretti dai soli che hanno il potere di creare le lingue: i poeti;
- Nessun volgare italiano è adatto a divenire lingua nazionale, e meno ancora lingua dell’Impero; bisogna formarla, attingendo a tutti i volgari illustri d’Italia.
- E al latino, certo, ma adattandolo all’italiano.
Da allora, però, la questione della lingua non è ancora del tutto risolta.
Concludo, in lode dell’Alighieri, con il suo programma di libertà e dignità morale, che, nel mio piccolo, ho sempre seguito pure io:
questo tuo grido farà come vento
che le più alte cime più percuote;
e ciò non fa d’onor poco argomento.
Ulderico Nisticò