Ci manca, in Calabria, l’ironia, e tanto più l’autoironia. Dai Greci, nostri lontanissimi avi, abbiamo ereditato solo la tragedia, anche se sotto piatta forma di lacrimatoio; mentre non ci è arrivata la commedia, che, come ben nota Orazio, è la madre della satira personale e politica. Ah, quell’Aristofane, che piglia in giro i poeti intellettualistici come Euripide; e i filosofi eversivi come Socrate; e la mania ateniese per le leggi, i giudici, i processi; e la democrazia e i politicanti; e i bellicisti costretti ad arrendersi dallo sciopero sessuale delle donne… E senza pietà per nessuno: “Pur di suscitare il riso, non risparmia nemmeno l’amico”, dice ancora Orazio. Così ridevano gli antichi, e quando Cesare celebrò il quadruplice trionfo, i suoi soldati, che gli volevano bene di cuore, però gli cantarono così, in vecchi saturni: “Caesar subiecit Galliam, Nicomedes Caesarem”; siamo in fascia protetta, e non traduco! Vi do solo un indizio: sub-iecit.
Passano i secoli, e, con buona pace di Umberto Eco, nel Medioevo se la pigliavano a ridere non solo di questa Terra e di maschietti e femminucce, e Boccaccio è solo un esempio, ma anche dell’Aldilà: leggete i canti XXI e XXII dell’Inferno.
La satira popolare dilaga in Italia tutta… beh, quasi tutta. Le maschere carnascialesche dipingono con umorismo il carattere e le situazioni: Arlecchino, Gianduia, Pulcinella… e c’è una poesia locale: il Giusti, il Belli, Trilussa; e che dire di Pasquino? Eccetera.
E la Sicilia? Nessuno è più raffinato nella satira del siciliano, anche quando deve raccontare sventure, delitti…
In Calabria, invece, guai a ridere di qualcosa o di qualcuno, che quello subito si offende a morte e ti toglie il saluto. E così la nostra non molto numerosa letteratura, e per essa il cinema, sono improntati alla malinconia obbligatoria; attenti, non tragedia o dramma, solo pesante malinconia. Da un punto di vista letterario, la forma è quella della lamentazione continua, e di solito in italiano scolastico. Quando qualcuno tenta di imitare l’ironia altrui, il risultato sono parolacce e vilipendio generico.
Cerchiamo di capire il perché. Secondo me, ci sono queste radici del problema:
– il calabrese si piglia sempre sul serio, e si deve dare importanza, importanza che di solito nessuno gli dà, e allora cerca di darsela da solo: male che vada, il calabrese ha un parente illustre o spacciato per tale; parente, che però non vede manco per le feste natalizie; e quasi tutti hanno un nonno barone!!! E non vi dico il mitico titolo di studio, affettuosamente detto anche pezzo di carta.
– il calabrese ha studiato a scuola, anche con risultati, però solo a scuola, e da allora, fine: ed ecco che spuntano gli sbarchi di Ulisse (se ne contano, a oggi, nove!), i Templari, san Gennaro calabro, Pitagora immaginario… e invenzioni di ricchezze che mai furono; e guai a ridere di queste favolette: ti guardano con odio a vita. Senso critico, filologia, glottologia, storiografia… mai sentiti nominare.
– il calabrese ha un bisogno inconscio di dare la colpa a qualcun altro di qualsiasi cosa: vicini di casa, cugini, moglie, marito, figli, professori dei figli… in caso di scolarizzazione (vedi sopra) Romani, Bizantini, Spagnoli, Borbone, Garibaldi… basta che sia qualcun altro, tanto non sanno, generalmente, un bel nulla di storia, manco le date. Basta che di qualcun altro sia la colpa, meglio se morto da secoli, e non può fare né paura né favori.
– La cultura ufficiale, e ben pasciuta, e con cittadinanza onoraria anche di Pietracupa, è solo piagnistei, libri lacrimosi, film in pseudodialetto con pseudosottotitoli…
In queste condizioni decisamente freudiane, volete che i nostri corregionali abbiano il gusto dell’ironia? Pazienza, rido da solo e con pochi amici, anche indigeni, capaci di ridere.
Ulderico Nisticò