Non so se il sindaco di Tiriolo intendeva citarmi, ma ha detto pubblicamente che la sua città non ha bisogno di nulla inventare, tanta vera storia ha. Meditate. Le ultimissime scoperte, ma anche le defixiones e il celebre elmo, dimostrano che Teira o Teura o ager Teuranus fu anche un importante centro dei Bruzi.
La prima notizia sui Bruzi (Βρήττιοι, Bruttii) li dice ribelli ai loro padroni Lucani, o si trattasse di un popolo sottomesso assurto a indipendenza (allora dovremmo collegare l’etnico con Βρηττάνιοι e altri), o schiavi fuggiaschi, come dovrebbe suonare il loro nome in lingua lucana (e collegarsi alla radice indoeuropea fre, presente nei Frigi, e ancora nel tedesco frei e nell’inglese fry). Il Pugliese Carratelli ne ipotizza un’origine balcanica.
Come che sia, secondo Diodoro la loro costituzione in popolo avviene durante la guerra di tutti contro tutti scatenata dall’arrivo di Dione di Siracusa all’inseguimento di Dionisio il Giovane; e nell’anno 356. Dopo un conflitto con i loro antichi dominatori, si alleano con loro, stabilendo come confine il fiume Lao.
Sono divisi in quelli che Livio chiama “populi”, piccoli nuclei di allevatori con al centro un insediamento fortificato; la loro confederazione ha una fortezza importanza, la città dell’accordo, Consentia. Vivono autonomamente, si uniscono in caso di pericolo, come accade con Archidamo re di Sparta sconfitto a Manduria nel 338; con Alessandro Molosso, zio del Macedone, vinto e ucciso a Pandosia nel 330; con Pirro e Cleonimo…
Sono guerrieri, e ai Greci, ormai stanchi di civiltà degenerata, piace descriverli come selvaggi ed eroici. Si stanno però trasformando in stanziali e anche cittadini, quando conquistano le città greche ormai decadute, e vi si insediano: Temesa diverrà Tempsa; prenderanno Terina; faranno di Hipponion una Veipunium, donde poi Vibo; in qualche modo la romana Scolacium rispetto a Skylletion e forse Skyllation deve far supporre un toponimo bruzio; faranno loro la lucana Petelia; guarderanno a Crotone. Resistono Reggio e Locri, dove la poetessa Nosside celebra con tracotanza una vittoria sui Bruzi.
I Bruzi si ellenizzano, e presto saranno chiamati “bilingues”, perché parlanti il loro osco e il greco; usano certo il greco come lingua della scrittura. Siamo ormai nell’ellenismo, e il greco “comune” è la lingua veicolare del mondo.
Si forma un’aristocrazia che si dota di abitazioni sontuose e armi di lusso. Le loro gesta però non si prolungano molto nel tempo, se nel 275, assieme ai Lucani, vengono sconfitti da Roma e devono cedere parte del loro territorio.
L’ultimo bagliore di tragica gloria, la Seconda guerra punica. Gli Italici del Meridione si schierarono con Annibale contro Roma. Vincitore sul campo ma sostanzialmente sconfitto nei suoi intenti strategici, e poco e male sostenuto da Cartagine, egli si ritirò sul Golfo di Squillace, dove ancora molti secoli dopo una località, ormai romana, portava il nome di Castra Hannibalis e varianti.
Dal 207 si svolsero tre notevoli operazioni militari da Castra Hannibalis a Locri, attraversando dunque il nostro territorio. Roma intanto aveva riconquistato Italia e Sicilia, battuto la Macedonia, sottomesso la Spagna punica; e Scipione si batteva contro Catone per ottenere dal senato di poter attaccare l’Africa.
Le città bruzie, Cosenza in testa, vennero a patti con Roma.
Nel 202 Scipione effettuò lo sbarco, sconfisse le truppe locali e minacciò Cartagine. Alla richiesta di resa, impose come prima condizione il richiamo di Annibale. Gli ultimi giorni dell’avventura di questi in Italia furono confusi e feroci: devastò le città costiere dove potè giungere, e chissà se anche quanto restava di Scillezio, e Poliporto?
Ai suoi alleati italici e bruzi, propose di seguirlo in Africa e decidere lì in una grande battaglia le sorti della guerra. Al rifiuto, finse di volerli salutare e li invitò nel santuario di Era Lacinia: era una trappola, e, coltili di sorpresa, ne fece strage, “per non lasciare ai Romani così magnifici guerrieri”. Sappiamo però che duemila italici combatterono a Zama.
Secondo Appiano e Aulo Gellio, i Bruzi superstiti vennero resi schiavi pubblici, e da loro quelli di tale condizione venivano chiamati “Bruttates”. Ma i più si erano già accordati; e non può intendersi che quella punizione sia stata comminata a tutto il popolo.
Siccome quello di parlare male della Calabria è uno sport praticato fin dai tempi di Seneca, e gli intellettuali e scrittori calabri collaborano, non si andarono a inventare che erano bruttati, cioè calabresi, i crocifissori di Gesù Cristo?
Vero che Roma pensò bene di presidiare il territorio con importanti colonie, e, subito dopo la guerra, dedusse quella di Copia a Thuri e di Vibo Valentia a Veipunium; seguiranno Blanda, Clampezia, Scolacio, Crotone… Reggio diverrà notevole municipio, pur conservando a lungo la lingua greca.
I Bruzi avranno partecipato, anche se non troviamo notizie dirette, alla grande insurrezione del 91-88, quando Ponzio Telesino stava per prendere e distruggere Roma stessa; finì con un compromesso molto italiano, e tutta la Penisola ottenne la cittadinanza. I Bruzi si latinizzarono come tutti gli altri. Augusto li organizzò in una Tertia Regio Lucania et Bruttiorum con capoluogo Reggio.
Il periodo romano della nostra storia è ingiustamente trascurato, o persino malgiudicato. L’archeologia mostra molte e ricche e ben strutturate città, e una serie di “villae” agricole con palazzi nobiliari. Manca ogni altra notizia per l’evidenza che in quei secoli da noi, come del resto in tutta Italia, inclusa l’Urbe, non successe quasi nulla e regnò la pace romana. I Bruzi romani vivevano di legna, pece, prodotti dell’allevamento (Cassiodoro praticava la piscicoltura) e dell’agricoltura, artigianato e industria del laterizio, ampiamente attestata a Locri; ma anche Scolacio è fatta di mattoni.
Tiriolo romana doveva essere, come fu fino a poco tempo fa, il nodo stradale dallo Ionio alla Valle del Crati; e il centro del Reventino e della Presila. Nella Tabola trovata in palazzo Cicala nel 1640 (1638 secondo il mio Ursano) si dice che vi si svolgevano le Nundinae, festa e fiera settimanali, evidentemente a servizio di una vasta area, quella chiamata “ager Teuranus”. Teura, Scolacio, Castra Hannibalis non erano città come intendiamo oggi, ma centri direzionali di grandi territori agricolo-pastorali.
Soddisfatti dei bisogni, i Tiriolesi non disdegnarono altri comodi, e un bel dì si fecero l’acquedotto dalla Sila. Ai primi del XVII secolo, sempre secondo la mia Cronaca, venne scoperto il “giarrone grande”: oggi rimangono due grossi tubi di terracotta.
La Tabola è scritta in un linguaggio molto particolare, e se ne discute da sempre, se è latino ufficiale ancora arcaico, o un latino adattato al Bruzio. Il lettore mi perdonerà se posso portare qui uno solo dei tantissimi esempi: il genitivo di “senatus” è “senatuos”. E ciò basti a suggerire il problema se e in che misura sopravvivesse un sostrato bruzio.
Traccia indubbia è il toponimo Pràtora che, come Càmpora, è un plurale in r presente in diverse lingue indoeuropee ma non in latino; e che verrà tentato, con poca fortuna, nell’italiano arcaico meridionale (“schiàntora”).
I destinatari della copia della Tabola erano dunque romani o bruzi in via di romanizzazione. Non state a sentire i soliti spacca capelli in quattro che si sono arrampicati sugli specchi dell’ideologia e parlarono di “repressione romana del Meridione”. Lo scandalo gigantesco che provocò il senatusconsultum del 186 è tutto dell’Urbe, e non riguarda affatto la plebe ma la nobiltà corrottissima e le loro scollacciate signore, e il decreto riguarda tutta Italia, con tale severità da violare anche l’autonomia degli alleati. Ma di questo parleremo un’altra volta.
L’originale, donato dal principe di Tiriolo all’imperatore Carlo VI, dal 1708 al 34 anche re di Napoli, è a Vienna. Sta benissimo dov’è, e, se sapessimo usarla, ci farebbe tanta bella pubblicità una volta tanto non antimafia segue cena.
Vedete come Tiriolo è lo specchio della nostra storia?
Ulderico Nisticò