Ho scommesso che, quando sarà finita la strada dalla 106, io farò una gara con chi la percorrerà, e, buon conoscitore delle scorciatoie, arrivo io prima. Ma se fossi sopra un autobus, sarebbe un’altra storia: e così se mi trovassi con una comitiva di turisti. Non so se ricordate quando venne in Calabria l’allora regina del Belgio, Paola Ruffo, e la misero sopra un pullman assieme a un corteo di dame catanzaresi sedicenti bbbbbene e loro mariti consulenti regionali a soldi, e la povera sovrana, sovrana sì ma anziana, e dopo centinaia di curve, arrivò a Serra in catastrofiche condizioni. Ve lo ricordate? Ebbene, io sì, e mi convinsi sempre di più che non si può fare turismo con strutture scalcinate. Ecco a cosa serve la strada.
Perché insisto sul turismo? Perché è l’unica cosa che ci rimane, e ora ve lo spiego, raccontando la storia del territorio negli ultimi cinquant’anni.
Un tempo, Chiaravalle era uno dei paesi più ricchi (secondo i parametri di allora) della Calabria, con le patate, i fagioli eccetera, i bovini, le pecore, il legname, il lino, l’artigianato, il commercio; e qualche servizio. Così si poteva dire dei centri vicini. Poi arrivarono gli invasori barbarici, cioè i politicanti che introdussero quella che si chiamava ipocritamente “la società di servizi”, ovvero stuoli di impiegati con tutti i possibili e impossibili e assurdi pretesti. Iniziò così l’abbandono dei campi e delle officine, e delle pecore, e al loro posto, l’economia drogata e assistenziale.
Fino agli anni 1990, gli stipendi, più o meno, sembrava bastassero, a campare. Con l’euro, non bastarono più. E intanto i vari servizi chiudevano (in dialetto chiaravallese, “venivano potenziati”!!!), senza speranza di rinascita, e tanto meno delle mitiche assunzioni. Da qualche anno, al posto degli stipendi ci sono prevalentemente le pensioni.
Così i paesi si sono spopolati anche all’anagrafe ufficiale, rispetto alla quale però lo spopolamento reale è assai più evidente. E siccome la gente vive dove trova da vivere, e se no, no, ecco che andiamo incontro alla desertificazione. Attenti: i nostri borghi sono zeppi di cartelli VENDESI, sempre meno letti e più sbiaditi; e il patrimonio edilizio va verso il degrado e quindi il deprezzamento sia murario sia finanziario.
Per reagire, occorre la fatica, occorre ripristinare una vitalità economica. Per questa ragione, io penso al turismo.
Attenzione, e mettiamo le mani avanti: il mio turismo non è la botta di infantilismo tipo Rimini del Sud e Rodi dell’Ovest e Ibiza dell’Est e altre fandonie di vecchietti mai cresciuti e film anni 1960. Sappiamo bene tutti che abbiamo chiamato turismo le ferie dei lavoratori al Nord; ma i loro nipoti di oggi, nati a Milano, non sanno manco dov’è la Calabria, e se ne vanno in ferie alle Canarie. E ancora Soverato spaccia per turismo i suoi quindici giorni (olim!) di chiasso.
Già, perché quando a Soverato bisognava aprire alberghi, costruirono casamenti da affittare d’estate in nero e di cattiva qualità; e ai miei concittadini posso elencare quanti alberghi sono stati chiusi, trasformandoli, ovviamente, in appartamenti. Procedo, o ve li ricordate da soli?
Il mio turismo è quello cui è adatto e vocato il nostro territorio: di salute, di famiglia, della terza età, esperienziale, culturale, religioso, di collina e montagna; e, a coronamento, enogastronomico. Io non immagino patetici Vitelloni in ritardo, ma stranieri in cerca di quel sole che noi abbiamo più mesi l’anno degli altri; e di cibo sano e saporito, essi che nei loro Paesi non mangiano, ma si nutrono: e la differenza è sostanziale. Ma il cibo va prodotto, ed ecco il ritorno dell’agricoltura e dell’allevamento; e piccole aziende di trasformazione. Il turismo è svago per i turisti; per chi li riceve, è lavoro, impegnativo e intelligente, e per professionisti, non per dilettanti di un mese l’anno.
I nostri borghi interni possono accogliere a legioni, di questi tipi di forestieri ben paganti.
E c’è il mare, vero? Ebbene, se da Serra o da Chiaravalle si va e si torna dalla spiaggia in pochi comodi minuti, allora si può dire a un operatore turistico internazionale di mandarci qualche migliaio di Inglesi e Tedeschi e Svedesi e Francesi. Gente che va anche in cerca di cultura: ed ecco Scolacium, ed ecco Caulonia, ed ecco i nostri paesi che hanno tutti qualcosa da raccontare; ed ecco per i Tedeschi san Bruno, per i Francesi e gli Inglesi i Normanni; e i nonni dei Normanni, per gli Svedesi…
Non tentate di gabbarli con Ulisse: anche la città germanica di Ascimburgo, racconta con sarcasmo Tacito (I – II secolo d.C.), era stata fondata dal re di Itaca: ahahahahah. Di frottole omeriche ne hanno già abbastanza, lassù, per farsi portare a vedere una spiaggia vuota in cerca della sottoveste di Nausicaa. C’è la storia vera: peccato che non ne sappia niente quasi nessuno.
Insomma, per tutte queste ragioni e altre, ci vuole la strada, e subito. Ma sembra che ci stiamo arrivando, dopo tanti decenni di chiacchiere, e con persone e fatti seri. E quando la strada sarà finita, vedrete che saranno contenti tutti, anzi qualcuno, anche tra i protestatari, si vanterà del calabresissimo “L’avevo sempre detto, io”.
Ulderico Nisticò