Turdilli & C. I dolci della tradizione di Natale in Calabria


Paese che vai, usanze che trovi. Vero, specie quando si tratta di feste e di pietanze tipiche, dove tipicità sono anche i dolci che, nel buon tempo antico, erano la vera leccornia delle ricorrenze festive. Perciò, turdillu sta a Cosenza come panettone a Milano, buccellato a Palermo, struffoli a Napoli e via dicendo. In verità, la Calabria fa eccezione anche in questo, avendo ogni comunità il suo dolce tipico e ogni famiglia la propria ricetta per ogni tipicità alimentare. Vasto, dunque, è il panorama dolciario natalizio, nella nostra regione e arduo il disegno di una mappa; nondimeno proviamo a tracciarla.

I rudi bruzi, da tempo immemore, impastavano acqua e olio, a cui più tardi si aggiunse il vino o il moscato, per gli essenziali turdilli, addolciti col miele d’api. Poi arrivarono i Saraceni, che oltre le note disgrazie, portarono in dote tante spezie, prima fra tutte la cannella, con cui le popolazioni rivierasche ioniche impararono ad aromatizzare i turdilli, chiamandoli crustuli. Alle tradizioni pagane, che utilizzavano semi e frutta secca come elementi propiziatori di morte e rinascita, si rifanno invece dolci come la pitta mpigliata del folklore silano, in particolare San Giovanni in Fiore, dove, intorno al Settecento, era voce nei capitoli nuziali, come dolce degli sponsali.

E credo che da questa tradizione, a metà tra paganesimo e simbolismo paleo-cristiano, discendano i pesci di Natale della mia famiglia, pasta dolce confezionata a mo’ di pesce, ripiena di noci, mandorle nocciole e profumata di miele, buccia d’arancia e cannella: un vero tripudio di sapori e odori, a cui si aggiunge ‘a mmelatura (la glassatura) con un’alchimia di miele d’api, mosto cotto e melassa di fichi che conferisce un aroma davvero esclusivo.

Altra ghiottoneria simile sono le chinulille o chinuliddre che la sapienza femminile calabra declina in diverse varietà, usando per il ripieno della pasta, che può essere fritta o infornata, la semplice mostarda (la marmellata di uva) oppure la cioccolata con frutta secca o addirittura la ricotta aromatizzata con la cannella. E vogliamo parlare pure delle scalille o scaliddre, il cui impasto essenziale di uova, zucchero, anice e farina, si attorciglia intorno ad un bastoncino per dare la caratteristica forma di un’elica che ricorda vagamente la scala di cui portano il nome? O dei gustosi e buffi ciccitielli, rotondi e grossi “pizzuluni” di pasta dolce fritta, che si possono glassare con ‘a mmelatura o la glassa di zucchero?

O, ancora dei mostacciolli o susumelle nel cui impasto si miscelano i mieli di cui sopra e si colorano con gli allegri e colorati diavoletti? Dulcis in fundo, è proprio il caso di dire, un posto speciale spetta al torrone, senza dubbio figlio eletto dei raffinati Arabi, la cui arte s’innestò nella tradizione “italiana” del Quattrocento, come dolce celebrativo del matrimonio ducale tra Francesco Sforza e Bianca Maria Visconti. Ora, poi, che per l’impasto si usasse la famosa giurgiulena – i semi di sesamo – o le mandorle per la saporita cubbaita siciliana o le nocciole con cui si ricostruì, per il suddetto matrimonio aristocratico, il Torrazzo di Cremona, poco importa.

Quel che davvero conta è che tante piccole aziende familiari, e soprattutto quasi tutte le famiglie calabresi, custodi e paladini della tradizione, continuano a perpetuare la magia natalizia anche a tavola, con questi capolavori dei saperi e dei sapori del folklore più autentico.

di Adele Filice