L’Università delle Generazioni qualche mese fa ha assegnato al prof. Enrico Armogida il premio alla cultura, inserendolo nei “Gigante della Calabria”. Tra le tante sue opere edite ed inedite, figura un monumentale “Vocabolario Andreolese-Italiano” edito nel 2008.
Adesso il prof. Armogida ha intenzione di proseguire in questa esaltante avventura dialettale pubblicando un più aggiornato “Vocabolario Andreolese-Italiano” nell’edizione “Italiano-Andreolese” come strumento di maggiore e migliore conoscenza del nostro dialetto calabrese (andreolese, in particolare) che, essendo tanto ricco quanto prezioso ed imperdibile, sicuramente potrà interessare non soltanto i cultori della materia ma anche tutti i cittadini a beneficio della propria identità socio-culturale. Tale Opera può (e deve) interessare principalmente la fascia dei Comuni del comprensorio di Soverato, il cui dialetto è assai simile a quello di Sant’Andrea dello Jonio e, per esteso, può essere utile a tutte le genti di Calabria, Sicilia, Basilicata e Puglia.
Per contatti e prenotazioni dell’Opera, questi sono i recapiti del prof. Enrico Armogida: Via Papa Giovanni Paolo I n. 4 – 88060 Sant’Andrea Apostolo dello Jonio (CZ) tel. 320-9569964 (enricoarmogida@gmail.com). Qui di seguito viene consigliata la lettura dei questo suo illuminante scritto:
Perché “un nuovo” Dizionario?…
So che nella seduta precedente l’amico Salvatore Mongiardo, a me sempre vicino, ha condiviso con voi la gioia per il mio nuovo Dizionario (dall’Italiano all’Andreolese), che – a distanza di un decennio circa – è ormai giunto a conclusione quale opera complementare alla prima e che fra qualche annetto – dopo un’attenta revisione – potrebbe esser dato alle stampe ed offerto alla consultazione della popolazione tutta.
Io ringrazio di cuore tutti voi per questo Augurio comune e spero di non deludervi, in quanto nei miei scritti (di qualunque natura) ho sempre profuso il frutto del mio “lungo studio e grande amore” per la terra natale; ma devo cercare di far presto, perché “…lo tempo è poco omài\ che n’è concesso”, dice Dante (Inf. 29,11): si sente e si vede.
Certo, qualcuno si sarà già chiesto: “Perché ora un altro Dizionario?… Bene, cercherò di rispondere in forma alquanto concisa e sintetica.
Il mio obiettivo è stato sempre quello di lasciare ai posteri qualche opera che nel tempo potesse tener desto l’orgoglio della nostra andreolesità, per lunghi secoli agricola-pastorale e artigianale, ma nell’ultimo cinquantennio brutalmente spazzata via dalle vicende storiche: anzitutto a quei compaesani e amici dei paesi vicini che ancora sopravvivono qui nei paesi nella tradizionale vita di sacrifici, di stenti e di risparmi, e poi a tutti gli altri – i più numerosi – che per esigenze di lavoro ed istinto di conservazione sono stati costretti ad emigrare nelle parti più diverse e lontane del mondo (nelle lontane America ed Australia prima; nell’Italia e nell’Europa centro-settentrionale dopo), perdendo parte della loro originaria identità, convivendo – talora drammaticamente – col loro “io diviso” e immettendo le loro famiglie in un ambiente urbano di “gente nova” e, perciò, spesso caotico, individualista ed edonista e,talora, sedotto solo dai “subiti guadagni” (Dante, Inf., XVI, 73).
Indubbiamente, la Ia generazione di emigrati andreolesi, (quella degli anni 50-60 del dopoguerra, priva di adeguata istruzione quando non analfabeta del tutto), ritrovandosi spesso in un diverso ambiente di media cultura, aveva bisogno di uno strumento linguistico adeguato, che, partendo dal linguaggio dialettale del proprio paese, li aprisse e li avvicinasse alla lingua nazionale italiana: da ciò l’utilità del primo Dizionario (quello andreolese-italiano, apparso a fine 2008).
Diversa, invece, l’esigenza della IIa e IIIa generazione, cioè dei loro figli e discendenti (- ormai non si riescono più a contare! -), i quali, nascendo e crescendo in città e godendo dei benefici della riforma scolastica del 1962, si son ritrovati spesso a imparare e parlare – in ambito familiare – la lingua dialettale dei loro padri, ma ancor meglio – in ambito scolastico e nel nuovo ambiente urbano – la lingua italiana comune, già largamente diffusa in quasi tutta la penisola, naturalmente vivendo – dal punto di vista linguistico – in una situazione di ibridobilinguismo (italiano e dialettale insieme), nella quale, in forma quasi osmotica, il dialetto perdeva sempre più spazio e consistenza (sia lessicale che sintattica), mentre l’italiano suppliva gradualmente sempre più ai suoi vuoti allargando e rendendo sempre più familiare il nuovo patrimonio linguistico, anche se spesso in modo incompleto, spesso misto e taloracorrotto.
Da ciò l’utilità e l’importanza storico-sociologica del nuovo Dizionario italiano-andreolese, che mira ad equilibrare e ristabilire in un certo senso la forma identitaria delle 2 lingue (nazionale e dialettale), che sincronicamente si erano sviluppate e diffuse ciascuna in ambiente diverso e in forma indipendente e paritaria, con la stessa dignità linguistica e sostanza umana.
Ma a questo valore storico, va aggiunto un altro, di chiaro valore culturale: io penso infatti che, già prima della fase romanza del linguaggio del nostro paese, (sorto – pare – come villaggio di Badolatesi intorno all’XI-XII secolo), – tra gli antichi coloni di lingua greca, (giunti nel nostro meridione a ondate successive tra VII e VI sec. a. Cr.) e gli abitanti autoctoni di lingua latina, (subentrati ai primi come nuovi dominatori già dalla fine del III sec. a. Cr.) – si sia verificato necessariamente ma lentamente un fenomeno di sinecismo demografico, cioè di convivenza e di relazioni economiche e parentali sempre più frequenti, mediante matrimoni “misti”, cui seguirono naturalmente – per esigenza di comunicazione – un sincretismo culturale (cioè, una scambievole commistione di tradizioni, usanze, attività, divinità e religiosità) e un bilinguismo greco-latino, cioè la compresenza di due lingue, quella greca originaria (come sostrato) e quella latina sovrapposta (come adstrato insieme a quelle dei nostri numerosi dominatori), che gradualmente si contaminarono a vicenda, sì da portare a ibridismi lessicali (cioè a forme nuove di un lessico, che faceva spesso uso anche della lingua altrui, ma spesso corrompendola per scarsa conoscenza e familiarità).
Perciò, in forma succinta, potrei dire che i caratteri più vistosi e più interessanti del “nostro dialetto” sono questi:
1) – la ricchezza lessicale, riscontrabile nell’uso di vari
a) composti (v. sfortuna = mala-fortùna; carestìa = mal-annàta; malanno incurabile = mar-farùta; privazioni alimentari = mar-patùti);
b) di sinonimi (v. prubbicità, e i sinonimi propagànda opp. nùnziu, abbìsu (orale dei vandìari e poi anche scritto nei manifesti), notìzzia);
c) di neologismi (del II° Novecento, favoriti dal vento benefico della scuola; dall’invenzione del treno ferroviario e dell’automobile privata (la fortunata FIAT 500); dal telefono, televisore, PC e Smartphone);
2) – la polisemìa semantica, cioè la molteplicità di significati diversi che assume talora uno stesso termine in un contesto variabile – v., – per es. – dell’italiano aggrovigliato oavviluppato:
a) (detto di matassa di cotone, di lana…) = mbrogghjàtu opp. arrimbrogghjàtu – b) (di filo o legaccio ) = ngruppàtu – c) (di capelli arruffati) = ncatturàtu – d) (di cespuglio folto di forma rotonda) = nciuffàtu – e) (di groviglio di rovi) = ncamardàtu – f) (di rami o radici intrecciate) = mporchjàtu – g) (di serpi avviluppate) = ntorcigghjàtu (polisemia tanto più ricorrente quanto più un termine, dal senso proprio si fa passare a quello figurato, mediante l’uso di numerose figure retoriche, (come la similitudine, l’eufemismo, la litote, la personificazione, la metafora, la metonimia, la sineddoche…);
3) – la sinteticità espressiva, evidente nell’uso di frasi, detti o proverbi ellittici, privi cioè disoggetto o di predicato, ma sempre chiari e comprensibili – v. il detto Chjarìa de vìarnu e nnìabula d’estàti;\\ pinna de mònacu e cuscìanzia d’abbàti = Chiarore invernale e nebbia estiva,\\ [son come] scritto di monaco e coscienza di abate\ (cioè, sono tutte cose incerte e instabili, di cui non devi fidarti).
4) – la concretezza (propria di una società – agricola-pastorale-artigianale – legata alla terra e ai suoi prodotti e incapace di concepire il significato di tanti sostantivi astratti o di tanti aggettivi qualificativi, che normalmente sono sostituiti con locuzioni verbali: v. ragazzo sorridente = guagliùni chi rrida (l’agg. sorridenti è subentrato nel nostro dialetto solo più tardi, come neologismo, e per effetto soprattutto della scolarizzazione di massa); il sole morente a ponente = u sùla chi mmora ddà a pponìanti.
5) – la frequente personalizzazione del lessico (favorita dalla diversità della vita, isolata o comunitaria, condotta da un individuo: in campagna (da coloni o bovari), in montagna (da pastori) o in paese (da contadini e artigiani e da pochi benestanti); dalla classe sociale di appartenenza e dalla relativa istruzione). Di ciò è segno
a) l’uso di allotropi (cioè di forme diverse di una stessa parola) spesso dovute a corruzione popolare: il termine italiano parola in dialetto un tempo prima era palòra (per metatesi consonantica l\r) e poi è arrivato al più recente paròla (< lat. paràbula paràola, palòra\paròla); e…
b) l’uso di numerosi idiotismi (cioè di parole verbali unitarie che evitano la necessità di usare una lunga locuzione verbale: v. 1) abbandonare o lasciare o smettere l’abito talare o il saio = spogghjàrsi opp. schjiricàrsi opp. spretàrsi – 2) colpo di accetta = cacciàta ocaccijàta opp. caccettàta (s. f.),…ma c’è marteddràta, picunàta, palàta, zappunàta…,lignàta, virgàta, zocculàta, … – 3) ostruire l’accoppiamento di un montone con un pezzo di canna vuota = ntaveḍḍàra (vb. trans.) (antica tecnica anticoncezionale, praticata talora nei nostri paesi su ovini maschi) – 4) accordarsi con fatica (alla meno peggio, in base alle oggettive possibilità) su qsa = addobbulijàrsi (vb. rfs. – deriv.) … Ma ce ne sono un’infinità!
6) – i residui di una struttura linguistica arcaica, quanto mai semplice e chiara, in cui – sotto l’influsso dei primi colonizzatori greci – le azioni del periodo assumono spesso unaforma paratattica, cioè di una serie di proposizioni indipendenti, d’importanza paritaria, come le sequenze di un documentario, accostate l’una dietro l’altra – Porto 2 semplici esempi i, spiegandoli e cercando poi di renderli nell’italiano corrente:
a) Va’ pìgghjami u martìaḍḍu: qui le 2 azioni (di jìra e pigghjàra) sono accostate in proposizioni – in entrambi i casi – indipendenti e imperative: Va’ + Pìgghjami u martìaḍḍu!)), mentre in italiano la forma corretta è “Va’ a prendermi il martello!”, in cui la IIa proposizione (a prendermi) è di natura finale (proposiz. ipotattica o subordinata), legata alla prima mediante la congiunzione subordinante a + Infinito;
b) Mona arrìvu, e nni vidìmu = Fra poco arrivo (+) ci vediamo (in italiano: Appena (cong. tp. subordin.) arrivo, ci vediamo).
Nb.) Invece più tardi, sotto l’influsso della lingua latina propria degli italici, il periodare diventò più complesso, legato spesso da congiunz. subordinanti (ipotattiche, temp., causale, finale, …) come in un ricco quadro pittorico ripreso in prospettiva, che fa trasparire lo sfondo in lontananza e la persona e l’azione che interessa in prima posizione: v. Duappu chi mm’aggiustai i valìci, mi nda scindìvi chjànu chjànu ar’a Stazziùani, mentre prima si diceva sicuramente “Mi preparai i cùasi\ ( e +) mi nda scindìvi ar’a Marìna”
7) – l’icasticità, propria di persone che affidano la conoscenza e la comunicazione di essa principalmente all’organo sensoriale della vista (piuttosto che alla riflessione e all’analisi astratta dell’intelletto) e perciò parlano come se dipingessero o scolpissero gli oggetti di riferimento: v. questo lapidario paragone, così bello ed efficace, per quanto breve e incompleto: – S’arrunzunàu\ cùamu nu mugnulìaḍḍu\ d’abbruvèra: locuzione in cui – a forma d’incastro – il settenario centrale s’incastona tra i 2 quaternari estremi, sì che – seppur la frase manca di un soggetto esplicito -, si può immaginare – come tale – un polipo, che, dopo un estenuante percorso in cerca di un posto sicuro in cui abbarbicarsi coi tentacoli, finalmente si chiude e si posa come una tenera radica di erica che, aggrovigliandosi nella terra o nello scoglio, trova sicurezza e pace; oppure, si può pensare a un amabile gattino, che, avvistata la padrona seduta al braciere, le salta addosso e, totalmente disarmata, si chiude in sé in attesa delle abituali carezze – Nb) Questa lunga esegesi, nell’espressione dialettale, è miracolosamente espressa in sole 4 parole.
8) – il moralismo sotteso a tanti detti e ai numerosi proverbi in uso;
9) – l’esemplarità di certi personaggi, anche femminili, come questa Epigrafe di donna di altri tempi: Àngiala si chjamàva\ ed era, ìḍḍa, ‘a mugghjèra\ ’e mastru Pìatru “vajanèḍḍa”,\ fìmmana ’e talìantu e dde madùḍḍa. (c’è tutto in questa connotazione finale, in cui, oltre ai 2 complementi di qualità, non serve niente altro, perché è eguale a un uomo stimato di un tempo!).
Questo, quanto alla forma di tali frammenti che sono in mio possesso; quanto al contenuto, invece, ritorna – come nel primo Dizionario – tutto il mondo circostante e tutta la vitamateriale, sentimentale e spirituale dei nostri antenati e dei concittadini a noi coetanei, che di questo linguaggio dialettale hanno fatto lo strumento della loro ansia di comunicazione, e con cui – i pù sensibili – hanno espresso anche il carattere vario, ma sempre sacro e misterioso, del nostro pellegrinaggio terreno: quello che Torquato Tasso, nel suo Capolavoro (Ger. Lib., l. XX, ott. 73, 6), in modo incisivo definisce “l’aspra tragedia dello stato umano”. Vediamo, – per esempio -, la breve Preghiera a Maria da parte di un povero disperato: Avemmarìa,\ pana volìa,\ pana non àju…\ Tènimi ca càju – Si tratta di tre quinari, chiusi da un senario a rima baciata col verso precedente, in cui un povero disperato, per la fame perenne, non riesce a proferire neppure l’abituale preghiera alla Madonna; perciò, in forma accorata, quasi senza respiro ormai, intona l’inizio di essa (Avemmarìa), ma subito dopo ha appena il tempo di esprimere il suo desiderio primario (pane, sempre mancante o insufficiente) e di chiederle solo di reggerlo, dato ch’è sul punto di venir meno e di cadere a terra.
Si tratta di brevi frammenti, che però, quanto a partecipazione umana e a valore poetico, non hanno nulla da invidiare a tanti versi che si ritrovano abitualmente inseriti in tante Antologie (= raccolte di fiori!) scolastiche in lingua italiana.
Queste le motivazioni e le finalità che mi son proposto col nuovo Dizionario; e questi i risultatiche penso di aver conseguito. Tuttavia, quello che ho esposto in forma così sintetica e affrettata non può assolutamente far immaginare la ricchezza e la bellezza linguistica che la lettura quotidiana di una pagina del nuovo Dizionario offrirà a tutti i cittadini e gli spiriti andreolesi che i libri non li acquistano per adornare la libreria, ma per tramandare in eredità – di generazione in generazione – un patrimonio prezioso.
S.Andrea Jonio, 8 dicembre 2018 – Enrico Armogida