Il popolare adagio “risus abundat in ore stultorum” è destinato ad essere sfatato perché non è per niente vero che il ridere è proprio degli sciocchi. Tutt’altro. Anni fa, è stato pubblicato in Italia un libro sul pianto degli elefanti, a significare l’esistenza di sentimenti anche negli animali. Di risate, invece, niente di niente; a ridere, infatti, pare che siano soltanto gli uomini ed i primati, ossia scimmie ed affini. Umorismo ed ironia rimangono una prerogativa umana, e sottendono sentimenti di non facile conoscenza scientifica se è vero che ancora oggi non sono note le ragioni reali che ci fanno scoppiare a ridere o capire il senso del comico e dell’umorismo in tale o tal altra persona, in un film piuttosto che in un altro. Scienziati e psicologi offrono, in verità, varie spiegazioni in proposito che –proprio per la loro diversità- non riescono ad essere esaustive né danno certezza scientifica. E’ vero però che i popoli ridono in maniera differente, nel senso che la comicità e l’umorismo sono dipendenti anche da singoli usi e costumi, cultura, tradizioni e storia. Una battuta di Totò, ad esempio, farà sbellicare dalle risate milioni d’Italiani, ma potrà lasciare del tutto “freddi”…gli Esquimesi. Naturalmente può accadere a noi la stessa cosa ascoltando una barzelletta esquimese. Le stesse commedie d’Aristofane, insomma, che pure sono legate alla cultura occidentale moderna, non destano la stessa ilarità nelle popolazioni del terzo millennio. Ma ridere rimane una cosa molto importante e fondante per l’uomo se Frederic Chopin ha scritto: “Chi non ride, non è una persona seria”. Nel famosissimo saggio di Henri Bergson, “Le rire”, si dice che “non vi è nulla di comico al di fuori di ciò che è propriamente umano”. La risata, dunque, nasce tra esseri intelligenti, tra uomini, quando “riuniti in gruppo dirigono l’attenzione su uno di loro, facendo tacere la loro sensibilità ed esercitando solo la loro intelligenza”. Dopo migliaia d’anni, però, in cui le neuroscienze non si sono mai occupate con molta attenzione ed interesse scientifico dei sentimenti, delle emozioni degli animali, oggigiorno il loro studio è diventato una branchia importante, forse anche per cercare sempre più riscontri a favore delle teorie evoluzionistiche dell’uomo. Sembra dunque che oltre a ballare…quando non c’é il gatto, i topi ora sappiano anche ridere, secondo una sorprendente scoperta d’alcuni scienziati americani. Il fatto non è da poco, anzi è importantissimo, perché la risata e la capacità di suscitare riso erano ritenute –come dicevo prima- prerogative solo degli esseri evoluti, quali gli uomini e le scimmie; ma a loro, oggi, si devono aggiungere anche i ratti. Sì, proprio i topi. Oddio, non è che possiamo sentire fragorose risate vedendo dei topolini che lottano e s’inseguono l’un l’altro, perché le loro sghignazzate sono costituite da ultrasuoni non udibili dall’orecchio umano. Ma se sono indecifrabili, le loro risate sono in ogni caso reali, e pare -secondo le teorie evoluzionistiche- che ci sia anche un motivo importante, relativo alla loro incolumità; ridendo in questo modo, ossia “in silenzio”, i topi si divertono ugualmente e non danno ai predatori la possibilità di essere individuati e divorati. Secondo gli scienziati americani, dunque, i topi hanno un concetto di divertimento paragonabile a quello umano ma sono privi di un vero e proprio senso umoristico. A dare ascolto a queste teorie evoluzionistiche, alla fine viene fuori inevitabilmente che uomini e ratti abbiano avuto, circa settantacinque milioni di anni fa, un comune discendente che possedeva già evidenti doti umoristiche, il senso del comico, un certo livello di vita sociale, insomma, che gli faceva apprezzare e prendere la vita “con filosofia”.
Adriano V. Pirillo