Meridione e Calabria: numeri e fatti


 Leggiamo, con sorpresa e soddisfazione, che l’economia cresce in Calabria. Leggiamo, e ci perdiamo un poco nei numeri, soprattutto quando questi non sono in assoluto, ma sempre relativamente a qualcosa, e perciò in qualche modo con paragone arbitrario. Io, andando all’antica, posso capire, che so, che una tonnellata di grano (1.000 kg.) diventa una tonnellata e un quintale (1.100 kg); e per me è un aumento che si vede e si mangia.

Mi convincono di meno le cifre in proporzione, o con punti di riferimento evanescenti. Ciò premesso, pare che davvero la Calabria cresca economicamente. Ottima notizia, certo, non fosse che, con altri numeri alla mano, emergono due dati contraddittori: aumentano le esportazioni, non aumentano i consumi; anzi diminuisce la popolazione, quindi vengono meno i consumatori.

E qui serve qualche richiamo storico. Anche ai tempi che furono della Magna Grecia, tanti secoli fa, il territorio “calabrese” esportava legname e pece e minerali, ma non troviamo che le città avessero delle grandi flotte commerciali o da guerra: esportavano, dunque, più che consumassero. In tempi più recenti, si vendevano grandi quantità di olio lampante e mosto, ma erano merci di scarso valore aggiunto; e un consumo interno era di sussistenza.

Sussistenza non significa sopravvivenza, però nemmeno economia molto vivace. Il Regno delle Due Sicilie esportava molto, sia derrate sia qualche prodotto tessile; e importava poco, quindi il suo bilancio finanziario era, detto alla grossa e senza inseguire infantili sogni di gloria, positivo; e con benefici sulle entrate statali. Erano però deboli i servizi; e scarsi e lenti il mercato interno e la circolazione monetaria, mentre prevalevano la sussistenza e il baratto. Un tale sistema economico consentiva di vivere, ma non di sviluppare il valore aggiunto e l’indotto; e accelerare un progresso di tecniche e di metodi e organizzazione di lavoro.

Oggi la Calabria conta, all’anagrafe, circa 1.800.000 abitanti per una superficie di 15.000 kmq, divisi nell’eccessivo numero di 404 Comuni, in massima parte pochissimo popolati. Di fatto, gli abitanti totali sono di meno, e molti trascorrono parte dell’anno altrove: nonni in soccorso di figli emigrati, e, anno dopo anno, si trovano meglio altrove, e tornano, se tornano, per le vacanze estive; quindi vivono, e consumano, altrove. Il fenomeno dello spopolamento grava sui centri interni, che sono la percentuale maggiore.

Aggiungiamo l’evidenza dell’invecchiamento; e i consumi degli anziani non sono certo quelli dei giovani, soprattutto se badiamo alle tipologie. Come disse sconsolato qualcuno attempato, “Da ragazzo, mangiavo poco perché ero povero; oggi che sono benestante, mangio poco per ordine del medico”.

Ecco dunque che l’economia non può essere analizzata e capita, e quindi governata, con i bruti numeri; e servono criteri più variegati e concreti. Da quanto emerge, c’è un corto circuito dell’economia calabrese, se progredisce in alcuni settori e non in altri, anzi in altri regredisce: ed è, a mio modesto avviso, proprio il problema dell’indotto; l’antichissimo, il millenario problema delle cattedrali nel deserto. Serve un meccanismo che migliori il valore aggiunto, e non si contenti della quantità delle esportazioni.

E che utilizzi le risorse per avviarle a mercati che oggi sono molto più esigenti e attenti anche alle analisi organolettiche di un prodotto: vino e olio di qualità e che rispondano alla richiesta; e ricerca di minerali come le terre rare… E una produzione efficiente ha bisogno di indotto, e ne genera.

Per il valore aggiunto e l’indotto di ogni genere occorre la professionalità. Vero che la storia umana è stata fatta da dilettanti ingegnosi, ma furono quelli che, inventata la ruota, poi si misero in ferie a vita, e i loro discendenti per secoli. Serve la professionalità del quotidiano. Altrimenti, il valore aggiunto lo aggiunge qualcun altro.

Serve, per la professionalità, la scuola; una scuola che insegni sì a vivere, però anche, forse soprattutto a lavorare: tanto, con buona pace di qualche mamma, il titolo di studio non vale, oggi, la spesa della cornice per appenderlo in salotto.

Serve un turismo che non conti i soli numeri di qualche corto periodo estivo e balneare, ma che valorizzi tutto il resto delle risorse meridionali, presenti e spesso poco utilizzate quando non poco conosciute. Non c’è più il turista delle canzonette anni 1970, e quello del 2024, se non trova nel Meridione, va altrove. Ce n’è, di mare, altrove…

Serve gente che non si spaventi del nuovo, nemmeno dell’intelligenza artificiale, che tanto non potrà mai fare più danni di quanti ne provocò quella naturale dai tempi di Eva ai nostri! E nemmeno susciterà i prodigi di felicità che qualcuno immagina. E, alla fine, è solo uno strumento.

Con tutto questo, accogliamo le buone notizie, sperando che migliorino nel senso di un’economia sana e produttiva e che offra lavoro; e lavoro da amare ed esserne orgogliosi, non concepito come una disgrazia alla Marx maniera.

Ulderico Nisticò