La settimana della lingua italiana


 Nel 1527 il re di Francia emanò un decreto che imponeva in tutti gli atti legali l’uso della lingua francese; riducendo così a lingue regionali il provenzale, il bretone… e a lingua ecclesiastica il latino. Negli stessi anni, in Italia si discuteva dottamente la “questione della lingua”, iniziata da Dante, però non c’era un re che potesse emanare decreti; e tuttora, nel 2024, l’italiano non è, legalmente, la lingua ufficiale.

 Fatta questa premessa non inutile, dobbiamo farne un’altra. Lo stesso Dante, quando affrontò il problema, lo teorizzò come “volgare eloquenza”, cioè letteratura; e i teorizzatori seguenti prestarono più attenzione alla lingua culturale che a quella parlata. Si continuò a far uso del latino come lingua non solo della Chiesa, ma della legislazione. Venezia usò la sua lingua anche nella politica e nella flotta militare. A Napoli i viceré tentarono di nobilitare il partenopeo anche come lingua dello Stato. Bisogna attendere il XVIII secolo perché tutti i governi d’Italia, allora tantissimi, usassero quello che ormai si chiamava il toscano, e diciamo l’italiano. Il problema di una lingua sia letteraria sia parlata sia ufficiale, a somiglianza del francese, lo pose il Manzoni con la redazione Quarantana del romanzo; non senza fiere opposizioni sia dei classicisti come il Carducci, sia degli italianisti.

 Oggi in Italia si usa l’italiano ufficioso (ripeto, non è ufficiale) come lingua della politica e dell’amministrazione; con delle autonomie locali di tedesco, ladino, francese. La letteratura usa quasi solo l’italiano. La scuola…

…la scuola, ho qualche… ho tantissimi dubbi. S’intende che le materie scolastiche sono insegnate in italiano, per l’evidenza che sarebbe arduo spiegare in dialetto l’aoristo terzo e la legge di gravità eccetera. I libri, del resto, sono in italiano. Vero, ma l’esperienza acustica, voglio dire quello che si sente per strada o in tv o al cinema, fa temere che molti professori, dopo aver dottamente spiegato i principi della termodinamica, e forse per questo avvertendo vampate di calore, si rivolgano ai discenti con “lapariti su finestrala ca si schiatta d’o caddu”, insegnando così, implicitamente, che la lingua della temperatura percepita è il dialetto, e l’italiano è una di lingua straniera.

 Non ho nulla contro il dialetto; e ho portato un esempio calabrese per i miei lettori. Ben peggiore è la situazione a Roma, da quanto sentiamo dai ragazzi a colpa di “ahò” e “mortacci” in sostituzione di qualsiasi altro vocabolo.

 Occorre una politica culturale della lingua; e della lingua per dire tutto, dai più sublimi amori petrarcheschi alle ingiurie all’arbitro e alle barzellette: l’italiano è capace di tutto ciò.

Ulderico Nisticò