Le prostitute in odore di santità?


prostitute2Qualche migliaia di anni fa le prostitute godevano di un prestigio notevole e di grande rispetto, stimate e ritenute un tramite tra l’uomo e la divinità, e dunque quasi delle sante.
Amare per puro piacere, per sete di denaro, per acquisire potenza e potere per sé e per il dio che si rappresentava è qualcosa che risale alla notte dei tempi, al secondo millennio avanti Cristo, come attestato in Erodoto e Pindaro e come risulta da alcuni recenti ritrovamenti negli scavi dell’antica Tharros, città fenicia della Sardegna prima di cadere in mano ai Cartaginesi ed infine ai Romani. Pare, infatti, che in un tempio di quella cittadina siano stati trovati, una decina di anni fa, oggetti e statuine che fanno pensare all’esercizio della prostituzione nei templi fenici come rituale propiziatorio della benevolenza di Astarte, la dea che rappresentava la fecondità e la prosperità. A praticare quel “mestiere” antichissimo, almeno una volta nella vita, erano donne-bambine che si esponevano nei templi prima di sposarsi e per libera scelta, sia per procacciare denaro sacro da destinare al tempio della dea, della quale impetravano l’aiuto per un buon matrimonio, sia per farsi la dote nuziale. Gli ammessi a frequentare il tempio e quindi a godere dei favori delle sacerdotesse erano, tuttavia, solo i naviganti stranieri quando si fermavano in quei luoghi per comprare e vendere le merci trasportate attraverso il mediterraneo. Dopo mesi di solitudine passati tra le onde spesso burrascose del mare, i templi a “luci rosse” di Astarte, soprattutto a Cipro e a Babilonia, erano un porto certo ed accogliente per i marinai che, stanchi e bisognosi di calore, erano sicuri di trovarvi in qualunque ora del giorno e della notte giovanissime ragazze in età di marito (a quei tempi era di circa 15 anni), che offrivano il loro corpo come preziosissimo dono in nome della dea della fecondità. L’obolo da lasciare alle sacerdotesse prostitute non era però alla portata di tutti se è vero un antico proverbio, riportato anche da Orazio (Ep. I, 17, 36), che dice: ”Non tutti possono recarsi a Corinto”; ma lì le sacerdotesse dispensatrici d’amore dovevano dar conto alla dea Venere, la più bella e quindi più “cara” di tutte le dee dell’Olimpo.
Questo culto amoroso, d’origine siro-babilonese, era conosciuto addirittura sin dalla prima metà del secondo millennio avanti Cristo e, dopo essere penetrato in Egitto, fu poi assorbito dai Fenici che, popolo di mercanti e navigatori, lo portarono lungo tutte le rotte seguite nei loro viaggi, sino in Sardegna, dove sembra che la prostituzione sacra fosse assai praticata grazie anche alla diffusione data dai Cartaginesi, grandi fedeli di quella dea. Nella cultura fenicia, in vero, e nei documenti che la riguardano, non si trovano accenni all’esistenza e alla pratica di prostituzione voluta dalla dea, ma la conferma dell’esistenza di luoghi di prostituzione sacra è data sia dal ritrovamento nel sud dell’isola di statuine votive che raffigurano sembianze femminili d’origine ellenistica e punica sia, indirettamente, da antiche fonti riportate da scrittori quali Erodoto, Strabone e Giustino, che parlano d’iscrizioni puniche le quali riferiscono chiaramente la presenza di donne giovanissime nei templi dedicati alla dea dell’amore, Astarte o Venere non importa. La prostituzione sacra era, insomma, una specie di forma di avvicinamento e di mediazione tra l’uomo e la divinità; per questo parenti ed amici delle sacerdotesse andavano fieri della loro “missione”. Secondo quanto scrive Strabone (VIII, 378), nel santuario di Afrodite a Corinto erano più di mille le etere sacre che uomini e donne avevano dedicato alla dea; la loro presenza rappresentava un forte richiamo per gli uomini e i capitani di navi che facilmente scendevano a terra per spendere lì il proprio denaro, contribuendo ad affollare e ad arricchire la città. Già il poeta Pindaro, in due Odi, aveva attestato l’immissione della pratica concreta dell’amore nella sfera religiosa, e la consacrazione di cinquanta etere al tempio della dea da parte di un vincitore di giochi olimpici sono testimonianze di una presa di distanza della prostituzione sacra dal vile rapporto commerciale in cui la relegavano gli Ateniesi, portando l’unione sessuale promossa da Eros e patrocinata da Venere ad un vero e proprio atto di culto (cfr. Pindaro, Odi olimpiche, 13). Queste donne, dunque, nella considerazione sociale occupavano una posizione abbastanza elevata, come elevato era il prezzo da pagare per i loro favori; nata in funzione edificatrice del culto di Venere per la preservazione della specie umana, la meritoria opera continuò poi grazie alla conquista e alla creazione di tradizioni e privilegi della classe sacerdotale. Le prostitute sacre, se proprio non si possono considerare alla stregua della donna angelicata del “dolce stil novo”, “venuta in terra a miracol mostrare”, erano però un tramite tra cielo e terra ed hanno contribuito molto in quella società alla crescita del ruolo della donna che arriverà a coprire, nella cultura religiosa romana, importanti incarichi sacerdotali, un tempo appannaggio dei soli uomini. Saranno le Vestali, infatti, custodi del fuoco sacro della dea Vesta, a reggere le sorti della vita pubblica di Roma la quale, quando rimaneva priva per qualunque ragione del fuoco della Dea, si fermava in tutto il suo apparato, quasi perdesse la sua identità. Assieme ai responsi della Sibilla, i riti delle Vestali erano indispensabili al funzionamento dell’Urbe, perché permettevano la soluzione delle crisi più gravi al senato e ai magistrati, nonché di ristabilire buoni rapporti di pace con gli Dei. Le parole e le decisioni della Sibilla, originaria di Cuma, erano anzi un talismano importantissimo per Roma, al punto che il poeta Rutilio Namaziano, pur essendo ormai nel V secolo cristiano, si lamentava che Stilicone avesse distrutto i libri sibillini, “aeterni fatalia pignora regni”, ossia pegni profetici di un impero eterno.

Adriano V. Pirillo


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