Alain Delon e Tancredi


 Delon era un valente attore, e un’icona della bellezza virile, il che forse nocque alle sue potenzialità artistiche. Fu un uomo dall’esistenza movimentata e forse travagliata.

Un uomo francamente di destra, di quella destra estrema francese reazionaria che, dal 1789, non ha mai avuto una sua storia politica e di governo, ma, forse proprio per questo, ha potuto sviluppare una solida cultura espressa in modi di alto livello letterario. Una cultura che si fonde con l’antico e radicato nazionalismo e spirito di grandezza della Francia.

  Per gli Italiani, Delon è Tancredi del Gattopardo, il romanzo che, nonostante i suoi palesi difetti di opera rimasta in bozza, è un raffinato cammeo di studiati particolari spesso difficili da cogliere.

Tancredi è il figlio di una sorella del principe Fabrizio, e di un padre del tutto incapace di gestire la sua casa, e finito letteralmente sotto pignoramento persino degli oggetti domestici. Un bell’esempio, lo dico per inciso, di come ben funzionava, nei due Regni meridionali poi uno dal 1816, l’inesorabile giustizia civile. Una cosa, ogni tanto…

 Di Tancredi è invano innamorata l’esangue e infelice cugina Concetta, ma Fabrizio e Tancredi troveranno il modo di coniugare una sicilianissima sensualità con l’interesse, ed entra in scena la prorompente Angelica, figlia di un personaggio paradigmatico del 1860 (ma potremmo dire lo stesso del 1943 e del 1994… ), passato da borbonico a garibaldino, poi deputato, l’ignobile ma abilissimo Calogero Sedara.

 Nel romanzo-bozze, dei due sposi poi si perdono le tracce, fino a un accenno: Tancredi non farà la grande carriera sognata dallo zio, però almeno finirà deputato, mentre Angelica, non si dice se già da sposata o da vedova, si dà al bel tempo con un altro garibaldino deluso.

 Nel 1860, infatti, Tancredi diventò garibaldino, spiegando l‘atteggiamento allo zio con la celebre frase: “Bisogna che tutto cambi, se vogliamo che tutto resti come prima”; con il corollario “Se non ci siamo noi [i nobili] quelli ti fanno la repubblica di don Peppino Mazzini”. Mi pare chiarissimo: se non si può impedire la rivoluzione, allora approfittiamone. E, commenterà in altra pagina il principe, “questo è il paese degli accomodamenti”.

 Tancredi compirà, contro il dissociato esercito borbonico, delle eroiche gesta che poi risulteranno (non solo le sue!) in buona parte inventate. Grazie al disprezzabile ricchissimo suocero, risolverà i suoi problemi finanziari. 

 Uno specchio della Sicilia, e, per estensione, del Meridione. Del quale “Continente” però al principe Fabrizio non importa nulla, e vive in due mondi che per lui sono il mondo: la Sicilia e le stelle; per dovere dinastico, la famiglia, e solo “per due generazioni”. Morrà male, come si accenna, e sarebbe curioso immaginare quali siano state le sorti dei Corbera principi di Salina nei decenni seguenti, e anche oggi. Non se ne legge nulla, come del resto – difetto gravissimo – di cosa fece Fabrizio quando la Sicilia, ribelle a Napoli, dovette combattere, ed egli, a calcoli fatti, era un trentenne: neanche un cenno.

 Tancredi, il bellissimo Tancredi-Delon, e Fabrizio-Lancaster, alla fine sono personaggi malinconici; almeno il principe ne è perfettamente consapevole. Il Gattopardo non è un romanzo romantico, è un racconto, o una serie di racconti decadentistici intrecciati; e narrazione di vite che sono un lento andare verso la morte come liberazione.

Ulderico Nisticò