L’1 maggio tutti parlano di lavoro, e quasi tutti dicono quello che già il 30 aprile sapevamo di sentire. Oggi che sono finiti i comizi e le feste canore, ne possiamo concretamente parlare.
Cos’è, il lavoro? È l’attività umana che genera valore aggiunto. Non esiste e non esistette mai un popolo che campasse di risorse naturali senza metterci mano: e ciò dico per spegnere le illusioni retroattive dei nostalgici dell’Eden e tardivi onnipresenti discepoli di Rousseau. Il mondo come lo conosciamo non è un effetto della natura, ma tutto interamente opera umana. Due esempi: quando in Calabria mangiamo un’ottima insalata di pomodoro, è un prodotto venuto dalle Americhe, come del resto fico d’India e tacchino e patate; e quando in America si esaltano alla visione del cavallo selvaggio mustang, è un pronipote fuggiasco di domestici equini spagnoli, a loro volta con avi arabi. Tutte attività umane, non naturali. Non so se sono stato chiaro.
Secondo concetto: il lavoro non è quasi mai un’azione solitaria, ma una catena. Quando visitiamo (spero!) la nostra Pietà del 1521, raramente riflettiamo che il marmo venne scavato a Carrara, imbarcato su una nave, portato a Palermo, lavorato dal Gagini sicuramente con l’aiuto di discepoli, e con martello e scalpello fabbricati da fabbri con ferro di chissà quale origine, poi, divenuto statua, portato forse al Pizzo da marinai e da portatori in un convento costruito da muratori, e con monaci dal saio tessuto da donne, poi, per la lite con Petrizzi, messa sopra un carro fabbricato da falegnami e trainato da buoi che avevano mangiato fieno seminato e falciato da contadini, e nel 1967 restaurato a Firenze… Insomma, chi ammira (spero) la Pietà pensi che vede il lavoro di migliaia di persone in questi cinque secoli.
Il contadino e il falegname non avrebbero saputo scolpire la Deposizione; ma nemmeno il Gagini sapeva falciare e seminare fieno: e a ognuno l’arte sua. Altra ubbia di Rousseau, arrivata poi anche a Marx e a certi contemporanei, è lamentarsi della “divisione dei compiti”; donde l’illusione che tutti sappiano fare tutto, il che non è minimamente vero.
Il lavoro è dunque la trasformazione di qualcosa di naturale affinché divenga adatta ad esigenze umane. È produzione, e la produzione richiede lavoro; mentre, detto in generale, è un errore “creare lavoro” artificiale tipo le centinaia di aziende fasulle, e mai aperte, impiantate in Calabria ai tempi non mai abbastanza vituperandi della Prima repubblica; e le assunzioni a battaglioni di pigrissimi “posti fissi”. Il tutto fu anche veicolo di blanda ma diffusissima corruzione.
Se manca il lavoro è perché manca la produzione; o perché si produce troppo quello che non serve, e troppo poco o nulla quello che servirebbe. Urge dunque un ripensamento dell’economia, che non può essere lasciata agli economisti con dodici lauree: il loro compito, insegnerebbe Platone, è di eseguire bene gli ordini dei filosofi. Il guaio è che non ci sono filosofi che pensino cosa fare!
Servono competenze, e qui interviene la scuola in senso molto lato. Dico molto lato, giacché il mitico “pezzo di carta” è ormai inutile, e ciò spesso vale anche per una laurea. Occorrono specializzazioni serie; e ciò sia detto non solo per la tecnica, ma anche per la cultura: non giovano a nessuno, anzi fanno danno, gli storici e grecisti della domenica, tipo “qui fu la Magna Grecia”, e poi nominano approssimativamente Pitagora e una decina di sbarchi di Ulisse. In Calabria sono indispensabili sia elettricisti ed elettronici veri, sia veri storici, eccetera.
Ecco un discorso realistico per il 2 maggio 2024; per quelli dell’1 maggio 2025, canzoni incluse, aspettiamo l’anno prossimo.
Ulderico Nisticò